Sarahah e il cyberbullismo 2.0
Pubblicato il 16 agosto 2017 Lascia un commento
La nuova app per messaggistica anonima Sarahah fa molto parlare di sé: soprattutto per gli utilizzi collaterali che cyberbulli e aspiranti tali potrebbero farne.
Cos’è il cyberbullismo?
Sai cos’è il cyberbullismo? Potremmo pensarlo come un bullismo 2.0.
È quella forma di violenza psicologica che passa attraverso i canali digitali – da facebook, a snapchat, a instagram, a quello che ti pare.
Perché il cyberbullismo è peggio del bullismo “tradizionale”?
Innanzitutto, perché non lo sostituisce, ma gli si somma.
Il bullismo esiste praticamente da sempre. Un libro interessante, “Bulli di carta”, ne ripercorre addirittura la storia all’interno della letteratura. Anche quando ero piccolo io, ovviamente, c’era. Ma prima dell’avvento di internet e dei social, quel bullismo aveva tutta una serie di “vantaggi” dal punto di vista di chi lo subiva:
- Lo sfottò era circoscritto nello spazio e nel tempo: solitamente a scuola o immediatamente dopo. Chiusa la porta di casa, perlomeno, si era liberi fino alla mattina successiva. Il bullismo sui social invece non ti molla mai, ti segue dentro casa e prosegue addirittura in assenza del bullizzato.
- Il bullo doveva guardare in faccia la sua vittima. Non è una cosa da sottovalutare: l’essere umano è programmato, almeno in linea di principio, per provare empatia. Non tutti hanno la cattiveria necessaria per fare male a qualcuno guardandolo in faccia. Con il cyberbullismo questo elemento viene meno e la cattiveria di ciascuno trova libero sfogo al riparo dello schermo di uno smartphone.
Teppisti Anonimi
Quanto al guardare in faccia la vittima, internet e la comunicazione digitale hanno ultimamente regalato ai bulli un’arma micidiale: l’anonimato.
La possibilità di mantenersi anonimi consente anche ai meno “coraggiosi” di farsi avanti. Credo che questo fenomeno sia, alla radice, lo stesso che precorre alle dinamiche di gruppo: il singolo si annulla nel gruppo che perpetra la violenza, si annichilisce e perde la propria identità.
In questo modo non è più riconoscibile, incolpabile e punibile come colpevole, soprattutto da se stesso: se non ci fosse stato Cristo a guardarli, quanti peccatori avrebbero scagliato la prima pietra?

Bryan of Nazareth, Monty Pyton
Per questo motivo l’uscita di Sarahah, l’app per messaggi anonimi, ha fatto suonare parecchi dei miei campanelli d’allarme.
Cos’è Sarahah?
Sarahah è un’applicazione di messaggistica istantanea che garantisce il completo anonimato. Secondo l’intenzione dei creatori, che voglio ritenere quantomeno ingenua, l’applicazione serve a migliorare sé stessi attraverso feedback onesti (perché anonimi) dei propri collaboratori, amici o altro. Boom!
Sarahah è nato nel 2017 come sito, ma a seguito del grande successo riscontrato fin dagli esordi, è stato convertito in app e sdoganato su Google.

Perché Sarahah è potenzialmente la nuova frontiera del Cyberbullismo?
Garantendo il totale anonimato (gli utenti autori di commenti non sono rintracciabili neppure dall’app stessa) e la possibilità di condividere contenuti come immagini e video, Sarahah dà a ogni cyberbullo o aspirante tale tutti gli strumenti necessari per fare un buon lavoro:
- Un pubblico, anche molto vasto: gli spettatori sono essenziali nelle dinamiche di bullismo quanto il bullo e il bullizzato;
- La possibilità di seguire la vittima anche fuori dal proprio raggio di azione materiale, nello spazio e nel tempo;
- L’anonimato: cioè la potenziale e totale impunità. Inoltre, il limite dell’aggressione si amplia di molto: senza la paura di essere scoperti, ci si spinge oltre il punto in cui la paura della sanzione o punizione fungerebbe da limite (minacce e istigazione al suicidio, tanto per dirne un paio). Ma anche la diffusione di immagini e video denigratori di vittime ignare sarebbero al riparo dell’anonimato.
Che ne Sarahah di noi?
Non ci resta che aspettare per vedere se si tratta dell’ennesimo cyberfenomeno passeggero, una bolla che scoppierà tra poco insieme a tutte le nostre perplessità.
Ma potrebbe anche diventare un fenomeno radicato, soprattutto tra i più giovani, come a suo tempo Snapchat, che a sua volta fece molto discutere per “l’autodistruzione delle prove”.
Non abbiamo ancora capito che gli smartphone, e più in generale internet, sono uno strumento grandioso da mettere in mano ai nostri figli. Lo sarebbe anche un’automobile, ma non gli consentiamo di guidarne una fino ai 18 anni – e comunque non prima di aver ottenuto l’abilitazione – per la loro stessa sicurezza e quella di tutti gli altri.
Per internet non dovrebbe essere poi tanto diverso: magari sarebbe esagerato attendere i 18 anni, ma sicuramente un maggior controllo, o meglio una semplice educazione all’utilizzo delle risorse che il web offre, sarebbe davvero auspicabile.
Dialoghi del Terzo Tipo: Gelato.
Pubblicato il 6 agosto 2017 Lascia un commento

Dialoghi del terzo tipo – Gelato gusto FIAT Panda
– Buongiorno, vorrei un gelato.
– Che gusto?
– Gusto Fontana di Trevi.
– Mi prende in giro?
– No, perché?
– L’ho appena finito.
– Ah. Che gusti c’ha allora?
– Fragola e cioccolato, crema e FIAT Panda.
– Mi prende in giro?
– No, perché?
– FIAT Panda è il mio gusto preferito.
– Le faccio un cono Fiat Panda?
– Grazie.
– Mi spiace, l’ho finito.
– Fragola e cioccolato?
– No, il cono.
– Mi dia una coppa allora.
– La UEFA va bene?
– Ok.
– Ecco, sono mille euro.
– Ecco a lei. Che buono, grazie signor gelatista!
– Grazie a lei, buona giornata!
Clara e l’ultimo albero
Pubblicato il 22 luglio 2017 Lascia un commento

The Last Tree by keego51 – Deviant Art. https://goo.gl/LrSW5K
– Sono preoccupata per Clara.
– Preoccupata? Perché? – l’uomo si girò sul fianco, per guardare negli occhi sua moglie.
– Passa troppo tempo con tuo padre. Davvero, le sta riempiendo la testa di sciocchezze.
– Cosa vuoi che sia? Le racconta solo qualche storia…
– Qualche storia? Passa il tempo andando in giro là fuori, a volte la tata-bot la perde perfino di vista. Oggi è tornata a casa dicendo di aver visto un albero. UN ALBERO, Mario! Non so nemmeno come sia fatto un albero, io.
– Ma sì, papà le avrà mostrato qualcuna delle foto di quando era giovane. Non c’è niente di cui preoccuparsi.
– Non m’importa, voglio che tuo padre la smetta di infilarle sciocchezze in testa.
– E va bene, domani gliene parlerò.
– Ma non può giocare ai videogiochi come tutti gli anziani della sua età? Un albero, senti tu…
—
Clara sgambettò oltre la duna. La terra sotto i suoi stivaletti termici aveva la consistenza della roccia. Poco più in là invece, si sfarinava in polvere che il vento soffiava lontano. La collina si stagliava davanti ai suoi occhi bambini come un gigante rosso.
– Ci sgrideranno fortissimo! – disse Marcello, il cugino di Clara. Era un bimbetto biondo e nervoso, con occhi che sapevano guardarti come quelli di un adulto.
– Quando lo avrai visto, ti farai sgridare volentieri – ribatté Clara, cocciuta.
– Ma tra poco sorgerà il sole! Moriremo fritti!
– Non sorgerà prima di un paio d’ore e saremo già tornati.
Senza aspettare l’obiezione del cugino, prese ad affrontare la salita. Nonostante l’alba fosse ancora parecchio lontana, il calore che sprigionava dal terreno la faceva sudare. Se non fosse stato per gli stivali, si sarebbe cotta i piedi.
Suo nonno diceva che una volta la terra era fresca e ci potevi andare anche scalzo, e addirittura c’era l’erba, che era una cosa verde e soffice, che era fresca e faceva il solletico ai piedi. Diceva che la gente usciva di giorno e dormiva di notte e non viceversa e il sole era bello sulla pelle e a volte cadeva dal cielo la neve, che è come l’acqua ma molto più fredda e ovattata.
– Ecco, siamo quasi arrivati.
La collina era fatta come una ciambella, con un bel buco nel centro. Nel buco la terra era scura e morbida.
I due bambini scesero adagio, tenendosi per mano.
– Ci credi adesso? – disse Clara.
Davanti a loro, dritto come un maestro, c’era un tronco scuro e largo, così largo che i bambini ci misero dieci secondi per corrervi tutt’intorno.
Proprio Marcello, preso dall’entusiasmo, iniziò a scalarlo.
– Clara! Vieni, vieni a vedere! – strillò da lassù.
La bambina, che si dondolava appena un ramo più sotto, fu da lui in un attimo, come se non avesse mai fatto altro in vita sua che arrampicarsi sugli alberi.
– Che c’è? – disse, ma poi rimase come folgorata.
I due bambini, le facce vicine e gli occhi scintillanti, osservavano un minuscolo ovale verde smeraldo che faceva capolino da un punto del ramo.
– Cos’è?- disse Marcello.
– È una foglia! Una foglia, una foglia, una foglia!
– Guarda! – Gridò di nuovo Marcello, puntando col ditino un poco più in alto – ce ne sono altre!
L’albero era pieno di piccole gemme.
– Se lo dico al babbo non ci crede! – squittì Marcello.
– E infatti tu non glielo dici.
– Cosa? E perché?
– Perché se no vengono i signori a tagliarlo per fare gli sgabelli.
– Gli sga… che cavolo dici?
– Lo sai almeno cos’è un cavolo?
– Io…
– Il nonno dice che se oggi non possiamo uscire di giorno e camminare scalzi e vedere la neve e arrampicarci sugli alberi è anche perché dei signori li hanno tagliati per fare gli sgabelli.
– A me il babbo mi ha detto che è per l’effetto Serbia. Credo.
– Che roba è?
Marcello fece spallucce. – Non voglio che lo tagliano, però – disse.
– E allora… – disse Clara, e gli porse il mignolo.
Alla luce fatua delle loro tute fluorescenti, Marcello lo prese.
Centenari e bici rubate
Pubblicato il 15 luglio 2017 Lascia un commento
“Mio nonno campò cent’anni perché si faceva i cazzi suoi”.
Stando al detto, un sacco di gente in questo paese ha un’innata predisposizione alla longevità.
Da questo distillato di saggezza popolare, che lascia intendere che chi si immischia nei fatti altrui corre il rischio concreto di finire nei guai, emerge infatti uno spaccato interessante riguardo alcune dinamiche della nostra biosfera sociale.
Porta Palazzo, oggi: lego la mia bici a un palo, nonostante ci fosse un parcheggio apposta proprio lì a fianco, per poterla tenere sotto controllo dalla vetrina mentre faccio alcune compere in un negozio.
Un tizio, anche lui in bici, si accosta alle rastrelliere poco distanti e fissa una bicicletta.
Avrei scommesso cento euro che stava per portarsi via un souvenir. E infatti, cinque secondi dopo, lo vedo armeggiare con un sellino. Dieci persone lì intorno e nessuno che dice niente.
La seguente riflessione si è svolta nella mia testa, sull’uscio del negozio, nel giro di cinque secondi.
Minchia, lo sapevo. E mo?
E mo non sono fatti tuoi, entra.
Non sono fatti miei ma potrebbero: ricordi che giramento di coglioni quando hanno rubato il tuo?
Daje, è solo un sellino! Devi rischiare una sberla per un sellino?
Non è il sellino, è una questione di principio.
Sei il solito ingenuo!
Sei il solito cinico!
Fottiti, se le prendi poi non venire a piangere.
Mi volto verso il tizio, che è appena riuscito a sfilare la sella.
“E beh?” gli dico.
“Perché, è mica tua?” risponde lui, facendo leva sul proverbio di cui sopra.
“Sì” mento spudoratamente, considerato che mi aveva visto legare la mia al palo.
Non se l’aspettava. Ci pensa.
“Eh, mi serviva una sella. Ma se è tua la rimetto a posto.”
Lui se ne va e io entro nel negozio, dove spiego la cosa al proprietario che si offre di dare un’occhiata dalla vetrina nel caso tornasse.
Ho rischiato di prenderle forse. Ma vedere quel sellino ancora al suo posto quando me ne sono andato mi ha fatto sentire una persona. Non una brava persona, non una persona migliore, ma una persona e basta.
E pazienza se non camperò fino a cento anni, tanto il nonno di chi ha inventato quel detto era uno stronzo.
P.S. Non voglio fare il disfattista, di esempi virtuosi ce ne sono tanti. Proprio a proposito di biciclette ad esempio, su Facebook, in un gruppo di vendita di bici usate che bazzico, più volte ho assistito in tempo reale al recupero di una bici rubata: il proprietario aveva segnalato il furto sul gruppo, qualcuno l’ha vista per strada ed è andato a tenerla ferma fino al suo arrivo. Rischiando di prenderle, of course.
