25 aprile – un racconto partigiano.

Ormai è tradizione che io celebri il la Liberazione con un pezzo a tema. Come la scorsa volta ho cercato di immaginare, e raccontare, episodi e personaggi che fossero il più possibile realistici, piuttosto che imprese spettacolari, perché è soprattutto grazie ai primi che oggi posso scrivere liberamente.

Buon 25 aprile.

La ruota.

Il Cristo volò altissimo, oltre le cime ondeggianti dei pini, e lo avrebbe seguito un buon bastimento di santi se non avesse provveduto il Bigio a tappare la bocca profana di Obice, che non era chiamato così per caso.
«Il danno ormai è fatto, piantala lì con ‘sto catechismo.»
Obice si chetò, ché il Bigio aveva ragione – ce l’aveva sempre.
Allora puntellò i pugni sui fianchi e si mise a esaminare la pesante mitragliatrice, che giaceva inclinata da un lato dopo che la ruota destra s’era sganciata ed era rotolata a valle.
«Tu che dici, Tussëta?» domandò a un terzo compare, un uomo di mezza età magro da far spavento.
«Che è rotta» rispose Tussëta, allargando le braccia.
«S’era capito, mondo infame! Intendevo dire se si può aggiustare.»
«Se troviamo la ruota, certo.»
Il Bigio intanto stava scrutando la cima del monte, dove li attendeva il resto della brigata.
«In queste condizioni» osservò «è chiaro che non va da nessuna parte. Io scendo giù a valle a vedere se riesco a recuperare la ruota, voi intanto trascinate la mitraglia tra i pini e copritela come meglio viene.»
Senza aspettare una risposta, si mise in spalla il fucile e cominciò a scendere adagio lungo il fianco scosceso.
«Facciamo così» disse Obice, quando furono rimasti soli «attacchiamo la corda lì al gancio. Io spingo e tu tiri; poi basterà coprirla con qualche frasca, che la pineta è fitta.»
Tussëta annuì.
L’impresa però si rivelò da subito assai più ardua di quanto avessero immaginato, ché il suolo fangoso, la pendenza e il peso del pezzo d’artiglieria vanificavano ogni sforzo.
Come se non bastasse, aveva preso a tamburellare una pioggerella noiosa.
«Tira, Cristo d’un Dio, tira!» tuonava Obice, gli scarponi che annaspavano nel terreno argilloso alla ricerca di un sostegno.
Tra i partigiani era così: uno si sceglieva un nome di battaglia da far cagare i nemici nelle braghe, ma capitava assai spesso che glie ne venisse affibbiato un altro, gli piacesse o no. Così era stato per Obice, e così pure per Tussëta , che in quel preciso momento veniva assalito da un attacco feroce di tosse dei suoi; uno di quelli, per esser chiari, che gli avevano fatto avere quel suo soprannome.
Squassato da spasmi violenti, si lasciò sfuggire la cima e la mitragliatrice lentamente scivolò indietro, fino a tornare là dov’era partita.
«Tussëta, figlio di cagna, il prete avrebbe dovuto affogarti nell’acqua del battesimo» imprecò Obice, che era rotolato a terra sotto la spinta dell’arma. L’altro era chino sulle ginocchia, tossiva e rantolava alla ricerca d’aria.
«Lasciamo perdere» fece Obice «copriamola lì dov’è con dei rami e al diavolo tutto.»

***

La ruota era là, incastrata tra due rocce, molto più a valle di quanto avesse immaginato.
Il Bigio non era l’unico, però, ad averla notata: due soldati la guardavano perplessi, domandandosi come avesse fatto a finire lì e soprattutto da dove si fosse staccata.
Il primo era un giovane sottoufficiale con la barba ancora morbida, non doveva aver compiuto vent’anni: uno dei tanti rampolli di famiglia agiata spediti controvoglia a far carriera militare.
L’altro, poco più grande, che aveva avuto la sfortuna di nascere figlio di stagnino e quindi non si meritava i gradi sulla giacca.
Parlottavano guardandosi intorno, indecisi sul da farsi.
Il Bigio sapeva che non c’era tempo da perdere, ché, se ne fossero arrivati altri, addio ruota; così, imbracciato il fucile, scivolò in silenzio fino al bordo del bosco, dove il terreno compiva un piccolo balzo per lasciare spazio al sentiero sottostante, e da lì con un grido compì un salto bestiale che lo fece cadere giustappunto in mezzo ai due.
Era un uomo imponente, col volto solcato da cicatrici profonde e coperto da una barba grigia e irsuta; il cappotto lungo con la pelliccia sul collo, bottino di guerra, lo faceva sembrare ancora più grosso.
A vederlo piombare dal bosco come un orso, ai giovani soldati quasi cedettero le gambe, e quel che non fece lo spavento lo fece il calcio dell’arma: il più grande rovinò al suolo con la testa spaccata, l’altro finì seduto due metri più in là, sbalzato come un fantoccio di paglia dalla legnata contadina del Bigio.
«Avanti, uccidimi, traditore bastardo» ringhiò, col naso grondante di sangue, quando il Bigio gli fu addosso una seconda volta.
«Ti piacerebbe» rispose quello, afferrandolo per il bavero della giacca e rimettendolo in piedi «magari più tardi. Ora piglia la ruota.»

***

«Vi avevo detto di nasconderla» abbaiò il Bigio, dopo la lunga scarpinata alle calcagna del suo ostaggio.
«Cosa credi, che non ci abbiamo provato? Mica è un prosciutto, che lo sposti come ti pare» sbottò Obice «senza contare che al compare, qui, gl’è preso non so che demonio. Ho creduto di doverlo seppellire.»
Tussëta lo mandò al diavolo, balzò giù dalla mitraglia, sulla quale s’era messo seduto a fumare, e andò a guardare il giovane prigioniero.
«Dove l’hai trovato, questo qui?»
«Vicino alla ruota. Ne ho lasciato un altro a prendere aria al cervello, ma sono sicuro che ce n’è ancora: ripariamo e andiamocene in fretta.»
Tussëta prese la ruota dalle mani del prigioniero, che l’aveva portata fin lì, e senza aggiungere altro si mise al lavoro.
«Posso ammazzarlo io, questo?» chiese Obice, girando intorno al soldato come un cane che avesse intrappolato un topo in un buco.
«Nessuno ammazza nessuno. È un sottoufficiale e può valere uno o due dei nostri.» rispose il Bigio, pacato.
«Ma perché sempre queste cazzate diplomatiche, mondo infame? Loro i nostri li ammazzano come cani. Così.» e dicendo questo afferrò il giovane per il collo e lo chinò a forza in avanti, nell’altra mano già pronto un coltellaccio da macellaio. Il giovane iniziò a piangere forte, le lacrime si tingevano del sangue che ancora colava dal naso rotto e andavano a mescolarsi con la pioggia.
«Piantala, imbecille» ordinò il Bigio «e va’ piuttosto a vedere se Tussëta ha bisogno d’aiuto.»
«Guarda qua» disse Obice trionfante, mollando la presa «s’è pisciato addosso. Quasi m’offende che ci mandino contro gente così, mondo infame, è una mancanza di rispetto.»
«Come ti chiami» domandò il Bigio al suo ostaggio, quando Obice, scomodando la Trinità intera, si fu allontanato.
«Pier Luigi.»
«Sei fortunato a non essere figlio di stagnino, Pier Luigi.»

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