Il Grande Soldini
– Signore e signori – disse il mago, i baffi dritti come le lancette di un orologio fermo a segnare le dieci e dieci. – Ma soprattutto bambine e bambini: quest’oggi la magia muore.
Nel buio del tendone, ferito solo dal cono di luce del faro ora fisso sul prestigiatore, gli spettatori assistevano impassibili, come impassibili avevano assistito fino ad allora. Si levò qualche colpo di tosse, lo scricchiolio di un sedile, il pianto senza lacrime di un marmocchio viziato, nient’altro.
Il Grande Soldini respirò a fondo quella miscela inconfondibile di segatura, popcorn e zucchero filato. Quanto gli sarebbe mancato tutto questo?
Tentò di immaginare i volti degli astanti, che lo scrutavano senza essere a loro volta scrutati, protetti dalla penombra degli spalti: spettatori non più capaci di provare meraviglia, insensibili all’ incanto, inadatti allo stupore. E cosa resta della magia senza incanto, senza meraviglia, senza stupore, se non un cilindro vuoto?
– Quest’oggi, per la gioia del pubblico – disse, sollevando in alto una mano, un indice, in un gesto che voleva insieme ammonire e richiamare l’attenzione – ho in serbo il mio numero più grande, la mia ultima magia.
A un cenno del capo prese a rimbombare un lugubre rullio di tamburi.
– Addio, signore e signori, è stato bello sognare con voi.
Schioccò le dita e all’ istante, dalla mano fin giù ai piedi, prese a trasformarsi in sabbia e dissolversi, sgretolandosi come un castello sulla riva del mare.
Quando del mago non rimase che un vecchio cilindro poggiato su mucchio di sabbia finissima e bianca, i tamburi tacquero. Dal pubblico non giunse un applauso, un’esclamazione di stupore.
Solo quando, dopo alcuni minuti, fu chiaro che non sarebbe riapparso da una botola segreta, né da un baule cencioso, né si sarebbe calato dal vortice d’oscurità che denso aleggiava lassù, nella parte più alta del tendone del circo, solo allora, qualcuno gridò.
Nessuno vide mai più il Grande Soldini.