La Ballata di Lando – Cap IV: Lando Unchained
Con molto, molto ritardo, ecco il quarto capitolo della Ballata di Lando, pubblicato su THeiNCIPIT.
Sulla stessa piattaforma, potete votare il finale e far così avanzare il mio piccolo racconto in classifica (QUI).
(Fatelo, che poi Lando si offende)
Continuavo a spostare lo sguardo dalla faccia disgustosa e cordiale di Eugelfo, al drago, al manipolo di cacciatori di draghi, senza saper prendere una decisione.
«Quando non sai cosa fare» mi aveva detto una volta mio zio Gretzel «temporeggia finché non ti viene un’idea migliore».
Io l’ho sempre reputato un ottimo consiglio, per lo meno fino a quando ho scoperto che mio zio Gretzel, anima semplice, credeva che temporeggiare fosse un modo colto di dire scoreggiare.
Purtuttavia, nel suo significato letterale, anche se non voluto da chi l’aveva pronunciato per primo, mi sembrava allora un suggerimento adatto alla situazione.
Decisi quindi di andare a fare quattro chiacchiere con i cacciatori di taglie, giusto per vedere che aria tirava da quelle parti.
Si trattava di dieci energumeni di rara bruttezza, i cui occhi brillavano di una brutalità ignorante. Barbari delle Lande del Nord: gli unici esseri umani abbastanza forti e stupidi da infastidire deliberatamente bestie mastodontiche come quella incatenata alle loro spalle.
Mi avvicinai con fare deciso a quello che sembrava essere il capo, vale a dire al più grosso. Era un individuo alto più di due metri, la cui faccia feroce era ricoperta da un unico ammasso di barba, sopracciglia e capelli stopposi. Solo il naso e gli occhi facevano capolino: spezzato il primo, e volto dolorosamente a destra; piccoli e sfavillanti come tizzoni i secondi, che roteavano all’impazzata nel tentativo di sorvegliare in una sola volta il drago, i maledetti elfi e, adesso, anche me.
«Ciao capo» salutai.
«Come sai che sono il capo?»
«Hai l’aria del capo.»
«Beh, che vuoi?» abbaiò.
«Mi manda Zio Lou, vuole sapere come mai i suoi dragonieri di fiducia, quelli che paga profumatamente e che gli avevano assicurato di essere i migliori sulla piazza, si sono fatti spaventare da un branco di elfi vegani.»
Lui si rizzò in tutta la sua altezza, i bicipiti si gonfiarono minacciosamente mentre serrava la presa intorno alla sua grossa mazza ferrata «Io sono Wolfgang, capo del clan dell’Orso, colui che ha ucciso Pjornak, re dei Troll; colui che ha guardato negli occhi Khtuul, la bestia dell’Abisso; colui che ha sventrato il gigante a due teste del Dorn. Gli uomini delle Lande del Nord non temono nulla! Tranne…»
«…gli elfi» concluse un altro barbaro, un uomo dalla testa a forma di patata piena di cicatrici al punto che la barba non trovava spazio in cui crescere.
«Gli elfi.» concordò Wolfgang.
«Loro fanno le cose magiche. E tanto per essere chiari» continuò, chinandosi fino ad oscurarmi completamente con la sua ombra «non ho paura neanche di Zio Lou. Finché ci sono gli elfi, il drago io non lo tocco. Se vuoi ammazzarlo, puoi farlo da te.»
E concluse dicendo che, se non mi stava bene, potevo anche andare a prendere qualcosa nel qualcos’altro di mia madre.
Eugelfo e suo fratello Elfonso intanto seguivano la scena con espressione serafica, annuendo come se stessero dando il proprio assenso al compimento di un qualche destino già scritto, e che solo loro conoscevano.
Io gli mostrai il medio, mi voltai e andai verso il drago.
Visto da vicino era ancora più grosso di quel che sembrava. Alto come un palazzo di tre piani, lungo come una notte invernale. Un’unica catena, di un metallo speciale, gli correva tutt’intorno, puntellata qui e là al terreno con grossi occhielli.
Una grossa alabarda, dello stesso metallo della catena, giaceva a pochi passi da me e dal drago: i dragonieri la usavano per sferrare il colpo di grazia lassù, in un punto preciso tra la testa e il collo. Me lo aveva raccontato un giovane apprendista cacciatore, il giorno in cui fu divorato.
Presi un bel respiro, raccolsi l’alabarda e cominciai ad arrampicarmi su per la belva, trovando gli appigli tra le scaglie d’ossidiana della sua corazza. Il drago dal canto suo, forse sentendo la fine vicina, prese a dimenarsi e a guaire disperatamente, buttando ora fiamme, ora lacrime, che cadevano al suolo corrodendolo come il più aggressivo degli acidi. Mi ci volle quasi un’ora per arrivare in cima, e più volte avevo rischiato di perdere l’alabarda. Il mostro, ormai rassegnato, emetteva solo più radi sbuffi e sospiri che ricordavano lo sferragliare di un plotone di cavalieri in armatura. Il punto dove dovevo colpire era proprio lì, vicino alla decima vertebra, dove la catena compiva due giri per mantenere la testa più ferma.
Guardai giù i barbari, poi gli elfi. I due fratelli ancora mi fissavano impassibili.
«Siamo tutti fratelli» gridò a un tratto Elfonso «io, tu, i bracconieri, il drago.» La sua voce eterea era giunta chiara ed elegante fino a me, lassù, nonostante il vento e la distanza.
Maledetti barbari cagasotto, pensai.
Maledetto Zio Lou, maledetti draghi e stramaledetti gli elfi, coi loro dannati sensi di colpa.
Abbattei l’alabarda con tutte le forze, spezzando la catena in una pioggia di scintille.
Pochi istanti dopo, impigliato per un piede, vedevo il suolo farsi sempre più distante