La Ballata di Lando – Cap V: Sulla Pista del Trisonte Nero (ovvero breve storia di una famiglia di orchi)
In questo capitolo ho cercato di concentrare tutta la brutale stupidità di cui sono capace: si tratta di una breve e scanzonata panoramica sulla famiglia materna dell’orgoblin più scaltro (anche perché l’unico) di sempre. Sono certo che vi piacerà.
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Buona lettura
f.
Niente ti fa vedere le cose da un’altra prospettiva quanto stare sospesi a testa in giù, penzolando come un frutto troppo maturo a migliaia di metri d’altezza. Il drago, troppo impaurito, infuriato o semplicemente stupido, non dava impressione di voler perdere quota e io osservavo il paesaggio sottostante cambiare colore e conformazione come in un immenso caleidoscopio. Sorvolammo le Pianure Porporine, così chiamate ormai da secoli per via dell’insolito colore che aveva preso l’erba dopo una battaglia sanguinosissima, durata oltre cento anni, di cui più nessuno ricordava la causa; superammo le rigogliose Colline della Seta e seguendo il percorso scintillante e voluttuoso del fiume Lucino giungemmo fino alle Terre Brulle. Si dice che l’Orco Primordiale abbia visto la luce, agli albori dell’universo, proprio nelle Terre Brulle. Si dice così perché da sempre gli Orchi popolano queste lande sconfinate, dove ancora corrono i maestosi trisonti, che se pensate che un bisonte sia grosso, aspettate di vedere un trisonte.
Mio nonno materno, Ggrch, era il capo della Tribù degli Unghioni, una delle più grandi e forti di tutte le Terre Brulle. Era un orco all’antica, figlio d’un tempo in cui gli orchi non parlavano ancora la Grande Lingua, quella che oggi accomuna tutti gli abitanti del Basso Continente. Ora che ci penso gli orchi sono stati proprio gli ultimi a impararla, perfino dopo i troll.
Tradotto nella Grande Lingua, Ggrch significa “Colui che comanda coi piedi”: titolo che s’era guadagnato mettendo in riga a calci nel culo i guerrieri dell’intera tribù.
Potete immaginare dunque come non fosse un tipo incline alle manifestazioni d’affetto. La cosa più carina che ha fatto per me credo sia stata non mangiarmi quand’ero ancora piccolo; motivo per cui, una volta rimasto orfano, ritenni saggio non rivolgermi a lui.
La nonna invece non la conobbi mai, perché morì in battaglia prima che nascessi. So solo che si chiamava Vrujcka, che nella Grande Lingua ha un significato assai poco carino.
Mio zio Krog, il secondogenito, era una specie di artista. Le sue teste impalate andavano a ruba e lui era costretto a procurarsene costantemente di nuove, motivo per cui un giorno gli abitanti dei villaggi vicini gli fecero la festa.
Avevo poi un numero sterminato di cugini, praticamente tutta la tribù, e anche qualcuno nelle tribù vicine. Il più famoso era Wokka, il più grande cacciatore di trisonti della storia dei cacciatori di trisonti: di lui si narrava che, armato solo di un bastoncino e di uno scoiattolo morto, avesse ucciso il leggendario Battitore Nero, un trisonte così grosso che dopo gli acquazzoni nei solchi lasciati dai suoi zoccoli si formavano dei piccoli stagni. Con la sola sua pelle costruirono una grossa tenda, la stessa che ancora oggi ospita le riunioni solenni della Tribù degli Unghioni.
Durante i mezzogiorno roventi delle Terre Brulle, io mi rintanavo nel fresco odoroso di muschio ed erbe di quella grande tenda in cui, coi cugini della mia età, si giocava a sputi, alla lotta o a “schiaffeggia Buzuk e scappa”. Buzuk era lo sciamano della tribù, prozio di mia madre e di un’altra trentina di orchi e orchesse. Gli adulti lo tenevano in grande considerazione e reputavano una grande mancanza di rispetto disturbarlo quando piombava in una delle sue sempre più frequenti estasi mistiche.
La verità era che il prozio Buzuk era un vecchio rimbambito e s’appisolava un po’ ovunque, borbottando nel sonno. Io, piccolo e svelto orgoblin, ero più bravo dei giovani orchi a “schiaffeggia Buzuk e scappa”, mentre a sputi e alla lotta invece perdevo miseramente, non potendo in alcun modo competere con loro.
Mentre la mia mente, forse anche a causa di tutto il sangue che in quella posizione fluiva al cervello, si lasciava andare a simili ricordi, il drago ebbe un sussulto.
Doveva aver fiutato qualcosa di grosso, perché s’era fermato a mezz’aria, sorretto dalle ali immense che sbattevano rimbombando come tuoni. Cercai di dare il giro dondolando con il corpo, in modo da rivolgere lo sguardo dove lo stava rivolgendo anche il drago.
Laggiù, dove il buio era già denso e aveva inghiottito l’orizzonte, un punto risplendeva di un bagliore ardente.