Il Castello di Sommacima – Parte II
Prima di partire per la piovosa inghilterra, vi lascio un altro piccolo pezzetto del puzzle.
Buona lettura!
…
– Lieta di conoscerla – squittì, aveva una voce che ricordava il suono del clarinetto.
– Io sono Adele, la governante. A dire il vero sono anche cuoca, lavandaia, panettiera, ortolana e inguaribile chiacchierona. Il signor Balduccio è andato a preparare la sua stanza, intanto se vuole seguirmi le do qualcosa da mettere sotto i denti. Dopo la salita avrà una fame da lupi.
Sorrise tornò sui suoi passi, attraverso una porta sulla sinistra. Seguendola mi accorsi che aveva ragione: il mio stomaco, risvegliatosi al pensiero del cibo, muggiva come un bue impantanato nel fango.
La grande sala principale, rischiarata un poco attraverso le vaste vetrate dalla luce sanguigna del tramonto di Sommacima, appariva tutto sommato accogliente. Un lungo tavolo era stato apparecchiato con cura per una sola persona e alle pareti, tra arazzi e quadri preziosi, ardevano lampade ad olio. Al fondo, poco distante da quello che doveva essere l’accesso alle cucine, troneggiava un gigantesco camino, le cui fiamme invitanti si confondevano con quelle emanate dal sole morente.
Mi accomodai a quello che doveva essere il mio posto, su uno scranno che doveva aver visto almeno un centinaio inverni. I braccioli, alla sommità, erano intagliati a formare la testa di leoni ruggenti e sullo schienale, chiaro come fosse stato cesellato in giornata, lo stemma nobiliare di Sommacima.
– Le piace – domandò la governante, che era tornata così silenziosamente da farmi lanciare un gridolino decisamente poco virile. Tra le mani reggeva un grosso tegame di terracotta.
– Sì – risposi, riprendendo il controllo – è un bel pezzo d’antiquariato.
– Come tutto, qui dentro – rise – quella in particolare era la sedia personale del conte. Spezzatino di cinghiale?
Fu il mio stomaco a rispondere per me, con un gorgoglio assai più eloquente di qualsiasi parola.
Adele mi servì abbondantemente, poi sorrise e andò a sedersi qualche posto più in là, in disparte.
Feci sparire i tocchi di carne sugosi con l’abilità di un prestigiatore e ripulii la scena del crimine col pane, come il più abile dei ladri, senza lasciare la minima traccia di quella salsa densa e saporita. Non ancora soddisfatto, ripetei l’operazione due volte.
Quando l’ululato del mio ventre si fu assopito, mi concentrai su quello ben più terribile che veniva da fuori: il vento sibilava lamentoso tra le guglie del castello, squassava le tegole e andava a schiantarsi sulle vetrate come un piccione impazzito.
– Fa sempre così il vento da queste parti – mi informai, facendo un cenno verso l’esterno, ormai buio.
– No, devo ammettere che è alquanto insolito. Generalmente è molto più forte.
Decisi che era meglio berci su. Riempii generoso il boccale e lo vuotai con altrettanta generosità.
Era un vino parecchio vigoroso, ma anche molto saporito.
– Lo facciamo qui – spiegò la governante, osservando la mia espressione soddisfatta – alla vigna del castello. Ne vengono fuori quattro o cinque bottiglie all’anno. Ha già visitato il paese?
Senza stare a domandarmi dove potessero tenere una vigna lassù, scossi il capo e mi versai un altro bicchiere. – Solo il tragitto dalla piazza fino a qui.
Adele continuò a fissarmi come se dovessi aggiungere qualcosa. I suoi occhi, lo notai solo allora, erano a metà tra il verde e il grigio.
– A dire la verità – mi sorpresi a dire – passando dalla piazza alla mulattiera mi ha preso una strana sensazione di angoscia.
Lei sogghignò, come se stesse aspettando quelle precise parole da quando ero arrivato.
– Capita a tutti. In quella via, secoli fa, abitava il boia del borgo e ai piedi della mulattiera c’era il patibolo. Quei trenta metri scarsi di strada, che erano gli ultimi percorsi dai condannati a morte, sembrano aver conservato qualcosa di sgradevole.
Mi raccontava queste macabre curiosità con quel suo entusiasmo, come mi stesse parlando dell’ultimo libro letto.
La stanchezza del viaggio e della lunga giornata presentarono il conto insieme, senza alcun preavviso.
Le palpebre cominciarono a chiudersi, la testa a dondolare cullata dal vino. Adele mi pose una mano sulla spalla, delicatamente, invitandomi ad alzarmi.
– La accompagno alla sua stanza. Le abbiamo preparato quella appartenuta al conte, spero non le dispiaccia.
La stanza del conte era situata al primo piano, al fondo di un corridoio su cui si affacciavano almeno altre sei o sette porte. Era spaziosa, il soffitto a volta conservava ancora parte di antichi affreschi, le pareti di fredda pietra erano riscaldate da un camino acceso, che nulla aveva da invidiare a quello della sala da pranzo. Due finestre, schermate da tende di velluto rosso, si affacciavano sullo strapiombo in fondo al quale scorreva l’Orco.
Anche da lassù, lo si poteva udire mentre gareggiava col vento a chi fa più fragore.
Il pavimento era di legno, l’ambiente era arredato con pochi mobili essenziali ma eleganti: un grande armadio, una cassettiera, uno scrittoio e un letto a baldacchino, anche quello in legno, grande abbastanza da dormirci in quattro.