Fabrizio
Torno a produrre, in quel poco tempo libero che mi resta, e vi propongo un racconto violento. Violento nei concetti, nei contenuti, nel linguaggio.
Ma che volete, neanche nel mondo dell’irreale è tutto rose e fiori…
Buona lettura.
Conobbi Fabrizio quando avevo sette anni.
Abitavo con mia madre in un bilocale nei pressi della ferrovia, abbastanza vicino da vedere le facce dei passeggeri del regionale delle otto dalla finestra del bagno. Quando passava un convoglio, sbuffi di intonaco cadevano dal soffitto e il lampadario cominciava a vorticare pericolosamente.
Dormivo come ogni notte sulla poltrona reclinabile nella sala da pranzo, che era anche ingresso e cucina.
A svegliarmi fu il treno merci delle due e trentacinque.
Quando del trambusto del convoglio non rimase che un rombo lontano, un altro rumore attirò la mia attenzione: una serie di tonfi sordi, regolari, e scricchiolii prolungati, dietro la parete sottile della camera da letto.
Accostai l’orecchio alla porta della stanza, ma era già tornato il silenzio.
Poi riprese, più forte di prima, sempre più veloce.
Spalancai la porta gridando, ma quando vidi cosa c’era dall’altra parte, l’urlo mi si strozzò in gola.
Un paio di grosse chiappe bianche e lardose ondeggiava davanti ai miei occhi.
Il proprietario aveva i piedi piantati per terra, impastoiati nei pantaloni, ed il busto curvo sul letto.
Sotto di lui il corpo esile di mia madre, gli stivaletti di pelle ancora ai piedi.
Ti presento Fabrizio mi disse lei, facendo capolino da dietro la pancia dell’uomo.
O forse disse altro, non ricordo.
Fabrizio cominciò a farci visita sempre più spesso e a trattenersi sempre più a lungo. Non so, quindi, con esattezza quand’è che cominciò ad abitare con noi.
Di lui ho pochi ricordi positivi.
Come quando tornava a casa così ubriaco che si addormentava di schianto sulla mia poltrona.
Almeno, quelle volte, non picchiava me o mia madre.
Una sera era totalmente fuori di senno. Sentivo bruciare ferocemente la guancia su cui si era abbattuta quella mano grande come una padella, mentre lo guardavo impotente afferrare mia madre per i capelli e trascinarla in camera da letto. Ascoltavo passare il treno merci, implacabile.
Raccolsi meccanicamente il cacciavite con cui la sera prima aveva tentato di riparare il televisore. Spalancai la porta, balzai sul letto e lo piantai in quel suo grasso culo sudato.
Non la prese bene. Mi picchiò, ma per fortuna svenni quasi subito.
In ospedale, qualche settimana dopo, non faceva altro che scusarsi e piangere e fare la faccia triste, fintanto che l’agente di custodia ci guardava.
Fece qualche mese di prigione, quel poco che mi bastò per ricominciare a camminare, e mia madre mi promise che non lo avremmo mai più rivisto. Avevo tredici anni.
Un pomeriggio di ottobre, quando tornai dal giro di consegne per il supermercato, lo trovai seduto in salotto, mano nella mano con lei. Mi giurò che era cambiato, che aveva capito i suoi errori, che era una persona migliore. La sera stessa, a confermare i suoi buoni propositi, mi fracassò due costole.
Il giorno seguente scappavo da casa, per non farvi ritorno.
Fui accolto in una casa famiglia, poi in una famiglia vera e quindi, dieci anni dopo, mi laureai in legge e divenni avvocato.
Oggi, che mi chiedete di dire qualche parola su Fabrizio nel giorno del suo addio, non posso che accontentarvi.
Riposa in pace, figlio di puttana.
bravo Ferdi!