Il Condominio – Parte I

Signore e signori, la fornace riapre i battenti! L’estate mi ha dato il tempo di lavorare, il caldo mi ha ammaccato il cervello. Quindi non posso garantire che il contenuto di questo racconto sia totalmente sano… Come tutti gli altri, del resto.Per voiUn raccontino mezzo giallo e mezzo pulp per riprendere alla grande!
Anche questo, lo sconsiglierei agli under 16.


– Dunque crede che qualcuno voglia ucciderla.
Davanti a me c’è un omuncolo basso, calvo e quasi senza collo. Una specie di barile con le gambe pieno di sé stesso. E di soldi, unico motivo per cui ho accettato di occuparmi di un caso simile.
Indossa scarpe di pelle marroni tirate a lucido come una pista da bowling, pantaloni color crema e una camicia di lino bianca aperta sul davanti, a mostrare il pelo sul petto e la catenina d’oro col santo. All’anulare destro porta una sciocchezza che varrà sì e no quanto due rate del mio mutuo, al polso sinistro un orologio che basterebbe per tutte le altre. Mi fissa  con i suoi occhi piccoli, scuri e decisamente troppo vicini tra loro e fa cenno di sì con la testa.
– Vede signor…
– Tachis. Gregorio Tachis.
– Vede signor Tacos, normalmente lascio che ad occuparsi di simili faccende sia la polizia. Li ha già avvisati?
China il capo volgendolo lievemente a sinistra e insieme abbassa lo sguardo.
Traduzione: ho le mani in qualche impasto poco pulito di origine escrementizia sedimentaria comunemente detto merda. Cioè no.
– Molto bene – dico, annotando “bastardo recidivo” sul mio taccuino – ma per questo genere di lavori mi faccio pagare in anticipo. Sa, nel caso che il cliente tiri le cuoia.
L’ometto sembra non gradire, ma non obietta. Tira fuori da un cassetto della sua scrivania una mazzetta di pezzi da cento spessa come l’elenco del telefono.
– Cinquemila bastano?
Vorrei dirgli che per duemila venderei mia madre, ma la parte intelligente di me risponde solo – per cominciare, sì.
Dopo aver preso visione di alcuni fori di proiettile sulla porta dello studio, della foto di un gatto morto che gli era stato appeso fuori dalla finestra e di una quantità incredibile di lettere minatorie anonime, prendo l’impermeabile e mi alzo dalla sedia finto Luigi XVI.
Lui mi imita e mi precede fuori dallo studio, lungo il corridoio semibuio che conduce all’ingresso dell’appartamento.
– Allora, la aspetto qui domattina alle sei.
– Certo, signor Taxi. Intanto, si chiuda bene dentro.
L’appartamento è al primo piano del condominio. Scendo la rampa di scale, illuminata da un neon un po’ schizofrenico, ora acceso ora spento. Supero la grande scritta rossa sulla parete con l’incoraggiante messaggio “Tachis Muori” e mi avvio verso l’uscita. Passando saluto il custode, un vecchio magro come la fame e con due baffi che sembrano cespugli, seduto su una sedia fuori dal portone.
Totò mi aspetta appoggiato alla macchina, la giacca di pelle aperta e una sigaretta indiana stretta tra le
labbra, sotto i baffetti sottili. Si passa una mano tra i capelli corvini per assicurarsi che siano ancora impeccabilmente a posto, poi alza la testa e mi fissa.
– Allora – dice – un nuovo caso per Frankie Boom Burton?
Non permetto più a nessuno di chiamarmi Frankie Boom. Ma Totò è mio amico da sempre, quindi mi limito a dirgli di andare a prenderlo in culo e scattare una foto ricordo da mettere sulla scrivania.
Salgo, regolo lo schienale e inserisco la chiave nel quadro. Tossendo e gemendo, il motore si decide a partire e mi dirigo verso casa.
– Non hai risposto alla mia domanda – mi dice il mio compare, dal sedile di dietro.
Lo fisso attraverso lo specchietto retrovisore, si vedono solo gli occhi verdi e le sopracciglia curate.
Ci ha sempre tenuto troppo, al suo aspetto.
– Dopo l’esaurimento il dottore mi ha detto che non devo parlarti, Totò. Non mi fa bene ai nervi.
– Il tuo dottore non capisce un cazzo. E poi da quando dai retta ai dottori?
– Da quando li pago cento cucuzze all’ora.
Fine della discussione.
Imbocco la strada a scorrimento veloce, dove immancabile mi attende l’ingorgo delle venti.
Tra clacson e madonne riesco infine a raggiungere lo svincolo, quattro chilometri in venti minuti.
Scorrimento veloce un cazzo.
Sto in un vecchio monolocale nella zona portuale.
E’ un posto di merda, tutto un susseguirsi di vecchi edifici in mattoni e battone in ghingheri ancora più vecchie, ma per me ha un valore quasi affettivo.
Parcheggio come viene e mi trascino fino al portoncino. Una folata gelida di vento mi si infila sotto l’impermeabile, facendomi rabbrividire. Per intenderci, come sedersi nudi su un blocco di ghiaccio.
Mi volto per cercare Totò, ma quello se n’è andato. Dev’essersi offeso.
Apro, richiudo e salgo fino al terzo piano dove c’è una porta di legno, tutta graffiata intorno alla serratura: è sempre difficile centrarla, quando sei sbronzo marcio. Sulla porta ho appeso un cartello che dice “Frank Burton P.I.” dove P.I. sta per Private Investigator, all’americana. Anche se, a giudicare dalla piega che ha preso la mia vita ultimamente, sarebbe più corretto Povero Idiota, all’italiana.
Proprio così, vivo nel mio ufficio.
Ho cinquant’anni, un mutuo da pagare, due ex mogli, un congedo obbligato dalle forze di polizia e un passato discreto da pugile, o un passato da pugile discreto.
Entro e schiaccio l’interruttore alla mia destra. La lampadina si anima per un istante, poi muore lasciandomi al buio. Pazienza. Mi svesto sul posto e avanzo orientandomi con il tatto e con l’udito: inciampo su una bottiglia vuota di scotch, scomodando una decina di santi patroni, poi urto col mignolo del piede sinistro l’archivio di metallo e sfioro la scomunica. Dopo quattro o cinque tentativi, dolorante e prossimo alla dannazione eterna, raggiungo la branda vicino alla scrivania. E buonanotte a tutti.

La sveglia suona sempre troppo presto. Non le importa se hai ancora sonno, non le importa quanto hai dormito. Sempre troppo presto.
Senza alzarmi tendo il braccio e afferro il laccetto della tendina, lo tiro e la luce di un alba sporca di smog si posa sul polveroso squallore del mio ufficio.
Convinco me stesso a mettere i piedi per terra. Un suono allarmante mi costringe ad abbassare lo sguardo: sotto al tallone un paio di zampette dentate si contorcono negli ultimi spasmi, mentre il resto dello scarafaggio è stato schizzato fuori dal suo esoscheletro. E’ una parola che ho imparato da poco. Quei maledetti cosi hanno lo scheletro fuori, proprio così, l’ho sentito in un documentario.
Mi pulisco con un tovagliolo e cerco dei vestiti decenti in una valigia che ora è il mio guardaroba.
Riempio la caffettiera con l’acqua del rubinetto e la metto a scaldare sul fornelletto a gas, mentre aspetto mi chiudo nel piccolo bagno per darmi una lavata e scaricare.
Accompagnato dalla mia sinfonia preferita, Sciacquone n°5, mi specchio per decidere se è il caso di radermi.
Ora, gli espedienti narrativi vorrebbero che vi raccontassi come sono o come mi vedo.
Invece, fanculo gli espedienti e la narrazione. Dirò solo che una barba di due giorni non è abbastanza per vincere la mia stoica pigrizia.
Esco dal bagno, la caffettiera gorgoglia. Verso tutto in una tazza da latte e lo butto giù amaro, sentendo il calore che si diffonde lungo tutto il corpo.
Accendo una sigaretta, anche se avevo deciso di smettere un mese fa.
Guardo il pacchetto, questa è davvero l’ultima. Poi devo andarle a comprare.

Guido a ritroso fino in via Turati, dove sorge il condominio del mio cliente.
Com’è che si chiama, già? Tacchi, mi pare.
Vicino al portone c’è già Totò, appoggiato al muro nella sua solita posa da playboy. Lo supero senza nemmeno rivolgergli la parola, ma lui mi viene dietro comunque.
Saluto il custode.
– Questa è nuova? – gli chiedo, indicando la scritta “Tachis Gregorio, per te l’obitorio” comparsa sotto quella che avevo visto la sera prima. Sempre vernice rossa. Il vecchio fa spallucce e brandendo la scopa continua a lottare con la polvere.
Raggiungo l’appartamento al primo piano, busso.
Sento il click di una sicura scattare dall’altro lato della porta. Il mio personale regolamento, al punto 3, recita “meglio il suo culo che il mio”. Estraggo l’arma e sfondo la vecchia porta, che viene giù come fosse fatta di cartone. Mi ritrovo steso sul mio cliente, che geme coprendosi il viso e mi implora di non ucciderlo. L’aiuto a rialzarsi.
– Mi scusi signor Tacchi, non mi aveva detto di avere una pistola. Non pensavo fosse lei.
Ancora scosso, si limita ad annuire.
– E tu lavoreresti per questo gnomo pelato? Sei proprio alle pezze, Frankie – dice Totò, dietro di me.
– Che cazzo ne sai tu di cosa vuol dire lavorare.
Alza le mani in segno di sconfitta. Uno a zero per me.
Il tizio fa una smorfia perplessa, sembra davvero uno gnomo pelato.
– E’ un magnaccia – dice il mio amico osservando l’ambiente – mi gioco tua madre che è un magnaccia.
– Falla finita e vaffanculo fuori da qui. Ho da fare.
– Oh certo hai ragione. Scusa Sherlock, per una volta che qualcuno ti affida il suo pallido culo, è meglio se cogli al volo l’occasione.
Merda, uno pari.
– Fuori dai coglioni, ho detto.
– Ma si può sapere con chi sta parlando? – domanda isterico l’omino, guardandosi intorno.
Faccio segno di lasciar stare. Lo precedo lungo il corridoio, prendo posto davanti alla scrivania nello studio e lo prego di fare altrettanto. Sembra rilassarsi, prende una sigaretta e mi porge il pacchetto. – Vuole?
– Grazie, io le ho finite – lo afferro e me lo metto in tasca.
– Allora, signor Burton, ha già pensato a come procedere?
– Ho intenzione di interrogare i suoi inquilini, prima di tutto. Ha qualche idea riguardo a dove potrei cominciare?

Appartamento 9, ultimo piano.
Un trilocale affittato chissà a che prezzo a tale Davide Rizzuto, un tipo socievole che fa dentro e fuori dal carcere così frequentemente che hanno installato una porta girevole solo per lui.
Un portone girevole anzi, considerando i due quintali di muscoli per due metri di altezza che mi si parano davanti. Indossa una canottiera sporca di sugo e un paio di boxer azzurri.
– Il signor Rizzuto?
Il tizio raccoglie una buona dose di catarro con un rumore che ricorda quello di un trattore e la spara sul pavimento del pianerottolo con la violenza di un proiettile. Devo essere nel posto giusto, questo gentiluomo ha scritto omicidio su ogni capello.
– Dovrei farle qualche domanda.
– Puoi farla al mio culo, stronzo – dice, mostrandomi il medio.
– Volentieri. Il livello della conversazione sarebbe sicuramente più elevato.
Il gigante rimane per un istante perplesso, si gratta tra le chiappe con un dito che sembra un sigaro e poi fa la smorfia di chi ha finalmente capito la battuta. E non gli è piaciuta.
– Ehi un momento, chi cazzo ti credi di essere?
– Frank Burton, sono un…
All’energumeno si inumidiscono gli occhi, mentre quello che dovrebbe essere un sorriso s’allarga in modo grottesco tra le guance.
– Frankie Boom Burton? Oddio. Oddio, non ci posso credere. Vieni entra, siediti – mi dice, articolando appena le parole – sono stato il tuo più grande ammiratore fin dagli esordi. Chiamami  Davidone.
Entro e mi siedo, meglio non contraddire uno chiamato Davidone.
L’appartamento, piuttosto angusto, consiste in un salottino, una stanza da letto, un piccolo bagno e una cucina minuscola. A colpirmi però è la sfilza di foto appese alle pareti, un’autentica mostra monotematica col sottoscritto come unico protagonista. Poi ritagli di giornale, comunicati stampa, biglietti di vecchi incontri. L’energumeno intanto prende posto su uno sgabello, che scricchiola minacciosamente. Oltre alle foto, appeso a un chiodo c’è un paio di guantoni logori. Li riconosco subito: sono quelli del mio primo incontro. Qualche anno fa, rimasto al verde, li ho venduti su internet ad un idiota che me li ha pagati seicento pezzi. Ora ho il piacere di incontrare quell’idiota di persona.
Poi ancora vecchie fasce, un paradenti e perfino…
– Dove cazzo lo hai trovato quello – grido, indicando un vecchio sospensorio che penzola rassegnato da una mensola. – Dall’immondizia dietro il palazzetto dello sport – mi fa lui, allargando le braccia, come fosse la cosa più naturale del mondo. Non riesco a trattenere una smorfia di ribrezzo, questo è davvero un maniaco.
– Scusa per prima – dice – non ti avevo riconosciuto.
– Il tempo passa per tutti.
– Ma tu sei Frankie Boom, la leggenda, il campione assoluto dei pesi medi.
– No, ora sono solo Frank Burton, investigatore privato. E vorrei farti un paio di domande, Davidone.
– Tutto per Frankie Boom.
Non vorrei, ma vista la mole e i precedenti penali di quest’individuo, credo che dovrò inserirlo nella lista di quelli che possono chiamarmi così.
Risponde come uno scolaretto a tutte le mie domande, infilandoci qua e là qualche aneddoto e qualche riflessione sulla mia carriera da pugile. In un quarto d’ora vengo a conoscenza del fatto che ho la media di colpi al minuto più alta degli ultimi quarant’anni, che ero uno dei più quotati dagli allibratori e che quindi in seguito alla mia unica sconfitta il tasso di suicidi in città ha avuto un picco, lievitando del due percento.
Quanto al caso, mi ha rivelato che non possiede armi da fuoco, che sono in parecchi ad avercela col proprietario del palazzo e che lui stesso avrebbe una gran voglia di farlo secco, ma è agli arresti domiciliari per devastazione di proprietà altrui. Ha detto proprio devastazione, sembra che abbiano coniato un reato apposta per lui. Ad ogni modo il tribunale gli ha regalato un bel braccialetto, un simpatico aggeggio che segnala perfino quando va a pisciare. Tiro subito una bella riga sul suo nome.
– Cominciamo con un buco nell’acqua eh?
La faccia baffuta di Totò mi si para davanti appena Davidone chiude la porta alle mie spalle, tutto contento.
– Totò, Ho cominciato la giornata autografando il culo di uno squilibrato, non sono proprio dell’umore.
– Te l’ho detto, hai bisogno di me.
– Tra tutte le cose di cui ho bisogno, il tuo aiuto viene per ultimo. Perfino dopo le parole crociate. Perfino dopo la schifezza che si forma tra le dita dei piedi.
– Oh, piantala di fare lo stronzo. Piuttosto, hai notato che le scritte minatorie all’ingresso sono fatte con la vernice? Non con lo spray, con la vernice.
– E allora?
– E allora mi pare che tra gli inquilini ci sia un imbianchino.
Scorro rapidamente la lista che ho compilato con l’aiuto del mio cliente. Maledizione, due a uno per lui.

Prima di passare dal mio prossimo sospettato, decido di fare un salto dal signor Tapis.
Due operai gli stanno montando la porta nuova. Mi infilo di striscio e lo sorprendo seduto alla sua scrivania.
– Buongiorno signor Tapis –
Sobbalza, facendo volare i fogli e la penna che reggeva tra le mani.
– E’ Tachis. Gregorio Tachis – dice nervoso, mentre raccoglie le scartoffie.
– Perché, io che ho detto?
Mi fa cenno di lasciar perdere, sbuffando. Devo averlo spaventato a morte.
Prendo posto di fronte a lui, poggio le mani sulla scrivania e lo fisso.
– Allora? – mi fa lui, spazientito.
– Niente, il suo sospetto era infondato. Ha una sigaretta?
– Che vuol dire infondato? – mi domanda, porgendomi il pacchetto.
Io lo afferro, prendo una sigaretta e me lo metto in tasca. Le mie le ho dimenticate da Davidone.
– Significa che il signor Rizzuto è agli arresti domiciliari. Se mette un piede fuori da casa la polizia gli fa una colonscopia col manganello. Mi spiego?
L’omino sembra bloccarsi per immaginare la scena.
– Ma quel maniaco mi ha già minacciato di morte tre volte. Ero sicuro che fosse lui.
– Signor Tacci, c’è qualcuno in questo palazzo che non l’ha ancora minacciata di morte? Sia sincero.
Abbassa lo sguardo. Come sospettavo.

Mi ci è voluta quasi un’ora per prendere nota di tutti i motivi che i suoi inquilini potrebbero avere per volerlo morto. Nel frattempo il cielo ha mutato improvvisamente umore e fuori imperversa il diluvio universale, ma è ora di pranzo e a stomaco vuoto si ragiona male. Stamattina ho visto un fast food  a un paio di isolati da qui. Recupero un giornale dal cestino dei rifiuti fuori dal palazzo, non è un ombrello, ma almeno avrò la testa asciutta.
Arrivo al locale completamente fradicio. Mi siedo ad un tavolino in disparte e Totò prende posto di fronte a me. Una cameriera di forse vent’anni s’avvicina sculettando. Bionda, curve al posto giusto.
Mi porta un menù consistente in una sola pagina plastificata.
– Ciao tesoro – mi dice languida, appoggiandosi al tavolo in maniera provocante.
Faccio finta di niente – che c’è di commestibile – domando.
– Ti consiglio la zuppa. Ce l’ho bella calda.
Si passa la lingua sulle labbra, lasciandomi dubitare riguardo a cosa si riferisca l’aggettivo.
– Cristo – le dico – potrei essere tuo padre.
– Certe cose con mio padre non le farei.
Ma in che cazzo di fast food sono finito?
– Portami un panino e basta, mettici quello che ti pare – le dico secco.
Lei con aria offesa si raddrizza e torna a fare la cameriera.
– Vaffanculo, Totò – chiudo la conversazione prima che cominci.
Qualche minuto più tardi arriva il mio panino, ma a portarmelo è un ragazzo dall’aria assonnata. Barcolla fino al tavolo col piatto in mano e si ferma lì, tirando su col naso. Schiocco le dita per disincantarlo, lui mi passa il mio pranzo e resta dove si trova.
– Che problemi hai, ragazzo?
Quello si limita ad alzare le spalle. Pare intenzionato a rimanere dove sta e la conversazione non si preannuncia molto interessante.
– Fa sempre così, quella? – domando con la bocca piena, indicando con un cenno del capo la biondina che ora ripete il suo numero con un altro avventore.
– Per arrotondare – risponde lui, poi torna al suo stato vegetativo.
– Sai amico, credo che ti chiamerò Carciofo.
Finito il mio pasto riconsegno il piatto a Carciofo e, già che ci sono, do un’occhiata a quel che resta del giornale che ho usato per la pioggia. Risale ad un paio di settimane fa, ma è meglio che niente.

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