Tre anni
Mi aggiusto la cravatta.
L’ampia terrazza si spalanca sul mare: dev’essere da un posto come questo che Dio guarda il creato. Sotto un piccolo traliccio, intrecciato di vite selvatica, ci sono un tavolino in ferro battuto e alcune poltrone di vimini. Una brezza fresca soffia risalendo dal mare il fianco della collina, rendendo un po’ meno feroce il sole di Agosto.
Solo ora mi rendo conto di quanto devo sembrare inadeguato.
L’abito scuro impeccabile, le scarpe lucide, la cipolla nel panciotto, il Times sotto braccio e il mio solito pallore. Davvero, mi ci vorrebbe una vacanza.
Una giovane dagli occhi a mandorla esce dall’ombra della casa dipinta di bianco e mi viene incontro. Profuma di gelso, i lunghi capelli neri ondeggiano ad ogni suo movimento riempiendo l’aria di quella fragranza. Mi fa accomodare su una delle poltrone, poi sparisce discreta.
Lui arriva qualche istante dopo.
E’ invecchiato infinitamente: La barba è curata e impeccabile come sempre ma i capelli, ora del colore dei sassi, si sono ritirati dalla fronte spaziosa e sono stati raccolti in una piccola coda. Il tempo, abile artigiano, ha cesellato il volto di nuove rughe leggere, valorizzando gli occhi verdi sempre pieni di vita.
Mi sorride.
Per questo mi piace: quasi nessuno sorride, quando mi vede.
Si siede di fronte a me, poggiando il bastone sul bracciolo della sedia.
Il vento gioca con gli abiti di lino color panna, lui chiude gli occhi e si lascia accarezzare dalla brezza.
Quando li riapre e li punta nei miei, il verde della speranza si incontra col nero dell’abisso.
Restiamo così per qualche istante, raccontandoci in silenzio del tempo trascorso.
Ci conoscemmo quasi trent’anni prima, in un ospedale di Ginevra. S’era sentito male durante la presentazione del suo ultimo libro, il cuore aveva ceduto ed io ero già pronto a fare il mio lavoro. Ma quando entrai nella stanza mi sorrise, proprio come adesso. Poi parlammo. Poco professionale da parte mia, lo so, ma mai in tutta la mia lunga carriera avevo incontrato uno come lui. All’alba il cuore batteva ancora. Lo lasciai, promettendogli di tornare a fargli visita tre anni dopo, e così feci ogni tre anni, fino ad oggi.
Oggi, che è l’ultima volta.
In paese, lontano sulla costa, una vecchia campana batte l’una.
– E’ ora, Giovanni.
– Un istante ancora. Sofia, per favore.
La giovane ci raggiunge, su un vassoio di legno regge in equilibrio una bottiglia di limoncello ghiacciato, una ciotola di ricotta, del miele e una manciata di fichi che sembrano esplodere.
– Non possiamo partire a stomaco vuoto.
Faccio cenno di sì con la testa.
Spacca un fico e lo adagia su una foglia della stessa pianta, il latte scorre come sangue e l’odore mi buca il cervello. Poi con un cucchiaio di legno prende la ricotta, la adagia con cura infinita al suo fianco e la ricopre con una colata dorata di miele, ambra allo stato liquido.
Mi porge quel piatto e ripete l’operazione per sé.
Al primo boccone il corpo ha uno spasmo, tutti i sensi toccano insieme l’apice dell’estasi.
Lui mangia, assaporando ogni boccone come fosse l’ultimo. In tutta franchezza, lo è.
Io lo imito, concedendomi un momento di pausa dalla solita mortale routine.
Mi mancheranno questi attimi.
Capovolge la bottiglia, il liquido giallo, splendente e viscoso, scende a fatica per il collo stretto, gorgogliando. Il suono dei bicchieri che si scontrano anticipa il gelo ardente del limoncello che scivola giù per la gola. La campana batte due tocchi.
– E’ tardi, Giovanni.
– Ancora una cosa, poi andiamo. Sofia, le corde.
Sofia torna, ubbidiente, reggendo una piccola chitarra come fosse un bambino.
Il mio ospite la imbraccia, pizzica le corde con dolcezza e ne corregge le stonature, sorride.
Annuisco ancora una volta e sprofondo nella poltroncina.
La seconda volta che ci incontrammo, tre anni dopo, era su un treno diretto a Bucarest.
Lo chiamai e lui distrattamente mi porse il biglietto. Quando si rese conto dell’equivoco, sorrise e mi invitò a sedermi. Aveva con sé una vecchia chitarra, uno strumento delicato ed elegante. Quello stesso che adesso accompagna la sua bella voce, calda e malinconica, sulle note di “killing me softly”. La mia mente si perde, spaziando sull’immensità di quel mare calmo, seguendo il volo lento dei gabbiani e le infinite sfumature del cielo all’orizzonte.
Mi riprendo quando la campana risuona di nuovo, al terzo rintocco.
– Andiamo? – mi domanda. E’ in piedi di fronte a me, il suo solito aspetto curato e la sua anima serena, è pronto. Il bastone sotto braccio, il cappello di Panama stretto nella sinistra.
– Non oggi, Giovanni.
Ci rivedremo tra tre anni, quando la morte avrà bisogno di un’altra vacanza.
Ferdinando ci piace! Perchè è fresco, perchè è giovane e crede in quello che fa ma soprattutto perchè è sexy, molto sexy! Bravo!