La Ballata di Lando – Cap IX: Eroe per forza, martire per caso, Lando per sfiga.
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Rialzai la faccia dalla pozza di liquami appena in tempo per udire le urla degli assedianti e degli assediati esplodere tutte insieme come allo scoccare del capodanno.
Ero stato vomitato proprio tra le fila degli assalitori, appena fuori da Roccamara, e potevo scorgere le loro facce provate mentre mi correvano incontro a braccia tese, salvo poi fermarsi ad almeno un metro, per via dell’odore. Non c’era parte del corpo che non mi dolesse, mi facevano male perfino i capelli.
Mi sentivo come…
Già: come cosa?
In effetti dubito che ci sia qualcosa di anche solo vagamente simile all’essere parzialmente digeriti e poi rigettati da un drago. Dovrete accontentarvi di sapere che mi sentivo molto, molto male.
Con occhi opachi osservavo i soldati, che avevano fatto un cerchio tutto intorno a me, e che mi osservavano a loro volta con un misto di esaltazione e disgusto. Un uomo con dei bei baffi grigi che ricordavano le corna di un bufalo e una divisa piena di medaglie si aprì un varco tra la folla, poi mi indicò e disse qualcosa, ma non riuscii ad udire una sola parola perché nelle orecchie avevo ancora il fragore delle budella del drago. A malincuore, due soldati si fecero avanti e, mentre mi sollevavano di peso da sotto le ascelle, ciascuno con una mano a coprirsi la bocca ed il naso, mi si fece tutto buio intorno.
Al mio risveglio due occhi gialli e tondi come pompelmi mi fissavano da sopra un naso storto e piatto, simile alla piastra di un ferro da stiro, a pochi centimetri dal mio volto.
«C’è mancato pochino ragazzo, huh! Proprio pochino, huh.»
«Zio Rufus?» biascicai, sbavandomi addosso ad ogni parola.
«In carne ed ossa, huh.»
«Ti credevo morto. In effetti, tutti ti credevano morto.»
Zio Rufus fece spallucce. Poi inarcò le sopracciglia e restò lì impalato a guardarmi, col labbro inferiore sporgente, senza battere ciglio.
«Dove mi trovo?»
«Nella tenda dei sottoufficiali, huh, dei sotto-ufficiali.»
Mi trovavo in effetti in un ampia tenda, lunga una decina di metri e larga almeno quattro, in cui erano allineate parallelamente due file da sei brande, su una delle quali mi trovavo disteso.
«E i sottoufficiali dove sono?» chiesi, notando che era deserta.
«Due sono morti. Gli altri sono andati a dormire con la truppa, huh. Sai, l’odore…»
Non avrei potuto dar loro torto, visto che puzzavo come un nano dopo sei giorni di miniera¹.
Quanto a zio Rufus, suppongo avesse perso l’olfatto (insieme a un sacco di altre cose) per via di quel suo vizio di lanciarsi con la catapulta².
Restammo in silenzio a fissarci l’un l’altro, cullati dal dolce fischio della narice sinistra di zio Rufus, finché un soldato, o forse un paggio, non fece capolino con la testa dall’apertura più distante della tenda. Aveva capelli arruffati e stopposi, cosparsi di residui della paglia su cui in ogni esercito devono accontentarsi di dormire gli armigeri di grado più basso. Il giovane trattenne un conato di vomito, poi lo vidi sparire nuovamente dietro il drappo della tenda e lo sentii prendere un respiro profondo. In tutta fretta, ricacciò dentro la testa e disse d’un fiato: «IlcomandantesupremoLudwikdesideraconvenireconvoialpiùpresto.» Uscì nuovamente, riprese fiato e rientrò «viattendeallapiazzad’arme, trovereteabitinuovinelbauleaipiedidellabranda.»
Fuori il cielo s’andava rischiarando e le stelle sbiadivano una per una fino a sparire: l’alba non doveva essere troppo lontana. Camminai fino alla piazza d’arme in un nitrire di cavalli, fuggire di cani, svenire di cavalieri in arme.
Il comandante supremo Ludwik era l’ufficiale coi baffi a corna di bufalo. Mi attendeva seduto nel grande spiazzo tra la cambusa e le tende del primo reggimento, affiancato da due robusti luogotenenti che sventolavano giganteschi ventagli, e non potei fare a meno di notare che più mi appressavo e più il loro sventolare si faceva vigoroso.
«Mi avete mandato a chiamare?» chiesi, fermandomi rispettosamente a una decina di metri di distanza, gesto che il comandante sembrò apprezzare sinceramente.
Annuì, s’alzò dallo scranno su cui era posto e indicò con un dito grassoccio la sagoma scura di Roccamara, da cui si levavano ancora colonne dense di fumo. « Prima hai sparso il terrore tra i traditori di Roccamara, poi hai messo in fuga il drago: è il cielo che ti manda» disse «per perorare la santa causa dell’Impero-al-di-Qua.»
«Ma veramente io…»
«Pertanto è stato deciso che sarai tu a guidare il prossimo assalto. Se riuscirai nell’impresa di espugnare Roccamara entro il tramonto, sarai proclamato Grande Eroe Imperiale.»
«E se fallissi? O meglio, se proprio non ci volessi provare?»
L’imponente pancia pluridecorata del comandante supremo fu squassata prima piano, poi sempre più forte, da una grassa risata, a cui si unirono quelle dei suoi luogotenenti.
Già che c’ero, risi anche io.
¹La giornata lavorativa di un nano è appunto di sei giorni; secondo una diceria popolare, durante il lavoro i nani non sostano né per mangiare né per andare di corpo. E il fatto che non si fermino per farlo non significa che non lo facciano.
²Vedi capitolo 1