La Ballata di Lando – Cap VI: Non sparate sull’Orgoblin
Sesto capitolo appena sfornato. Fate piano, che scotta.
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Il profilo affusolato e austero della fortezza di Roccamara si delineava davanti ai miei occhi, più nero dell’oscurità in cui era immerso. La superficie liscia e scoscesa dei suoi bastioni risplendeva come ossidiana di rimando alle fiamme dei bracieri da campo che gli ardevano tutt’intorno.
Vista da lontano aveva le sembianze di una gigantesca cozza piantata di lungo nella roccia del monte, al cui interno, al sicuro come il mollusco al riparo delle valve, si trovava la cittadella.
Così com’era, la fortezza di Roccamara aveva fama d’essere inespugnabile; eppure aveva visto più volte nel corso della storia cambiare il proprio vessillo. Quando passeggiando o più spesso fuggendo con mio padre attraverso le Lande Brulle scorgevamo in lontananza il suo contorno severo, lui soleva agitare il pugno in quella direzione e maledirne tutti signori in ordine cronologico, dai costruttori fino agli attuali. Non seppi mai il perché di questa avversione del mio sfortunato genitore nei confronti dei suoi reggenti, ma lungo andare ne imparai la storia: fatta costruire dai duchi di Ghiaiona (maledetti) oltre sei secoli prima, la fortezza passò poi sotto il dominio dei Mangiaponte (stramaledetti), dai quali fu ceduta ai vassalli di Borgo Vecchio (figli di troll) che la persero a favore dei Signori di Argiò e delle Valli Alte (possano crepare e restare insepolti), i quali però si videro presto costretti ad abbandonarla nelle mani del visconte Ubertino delle Fosse (il diavolo se lo porti), che ancora la deteneva all’epoca dei fatti.
La sua importanza, anche se meramente strategica, era fondamentale: si trovava infatti a guardia del Cariato, uno dei tre passi montani che collegavano le terre dell’Impero a quelle dell’Impero vicino, ché a quel tempo anche il re più cencioso aveva la smania di definirsi Imperatore.
Il visconte Ugolino, signore di Roccamara, era un personaggio ambiguo, volubile e sanguinario. Dopo aver giurato fedeltà all’Imperatore, quello da questa parte del valico, aveva cambiato idea e aveva deciso di giurare fedeltà piuttosto all’altro, quello dall’altra parte, motivo per cui l’intero esercito del primo s’era mobilitato per fargli tornare il senno o toglierglielo una volta per tutte.
E proprio durante l’assedio di Roccamara capitai io, scarrozzato dal drago il quale, fiutata la possibilità di un pasto così facile e abbondante quale quello offerto solitamente dalle battaglie, vi si lanciò a velocità spaventosa.
Le sentinelle di entrambi gli schieramenti, vedendo la bestia che si avvicinava e potendo già scorgere i baleni fiammeggianti che irradiavano dalla sua gola attraverso le fauci spalancate, si affrettarono a dare fiato ai corni. Appresi in seguito che il codice guerresco, notoriamente semplice sì da poter essere inteso anche dal miliziano più tonto, in proposito era chiarissimo: “il nemico del mio nemico è mio amico, l’amico del mio nemico è mio nemico e il se arriva un drago si salvi chi può.”
Così, disinteressandosi completamente gli uni degli altri, i soldati di entrambe le fazioni corsero ai ripari.
Un primo nugolo di frecce, simile a uno stormo di rondini, saettò verso l’alto a un ordine del comandante degli arcieri assedianti. Il drago però era ancora troppo distante e le osservai mentre ricadevano in picchiata e si conficcavano al suolo.
Poi fu la volta dei tiratori di Roccanera, che dalla loro posizione sopraelevata potevano prendere la mira assai meglio dei loro avversari. Stavolta delle frecce udii anche il fischio, e poco ci mancò che una non arrivasse al bersaglio. Il drago dal canto suo era come indeciso e volava in tondo senza sapere chi arrostire per primo. Lasciò partire un bolide ardente dalla narice sinistra, spiovente, che impattò come un colpo di mortaio tra le fila inermi dell’accampamento assediante, poi si portò a volteggiare sui tetti di Roccanera.
Una seconda palla infuocata lasciò la narice destra, sfondando il tetto di una casa che esplose letteralmente all’impatto. Le maledizioni di entrambi gli schieramenti si univano alle mie, che dondolando senza sosta per via dei costanti cambi di direzione soffrivo di feroci conati di vomito.
Sul tetto della torre più alta allora gli armigeri, dopo essersi accorti dell’inutilità delle frecce tradizionali, avevano collocato una grossa balista. Era una specie di balestra gigante, che scagliava dardi delle dimensioni di strali e che, se l’avesse colto, avrebbe causato qualche fastidio perfino al dragone.
«Oh, dèi pagani» sospirai, vedendo la punta acuminata rivolta verso la belva e quindi, seppur accidentalmente, verso il sottoscritto. Cominciai allora a cercare di issarmi, facendo leva sul piede impigliato, ma il continuo movimento rendeva l’impresa faticosa e dolente.
Avevo quasi afferrato, dopo un colpo di reni da applausi, la catena che mi imprigionava; quand’ecco uno scatto, come il vibrare di una corda enorme, seguito da un sibilo sinistro. Il drago scartò appena in tempo per evitare il dardo, ma poiché i draghi son bestie permalose, parve non prenderla troppo bene.
Gonfiò il petto al punto che potevo sentirne scricchiolare le scaglie e gettò una fiammata tale che della balista, dei soldati e dell’intera torre non rimase più nulla.
Quindi vomitai.