La Ballata di Lando – Cap III: Mai dire Drago

Ecco il terzo capitolo della saga di Lando l’orgoblin.
Come sempre, se volete decidere il seguito, vi rimando alla piattaforma di THe iNCIPIT, che potete raggiunere cliccando comodamente QUA

La Terra dei Draghi è quel genere di posto in cui non vorresti mai passare le vacanze, a meno che tu non sia un drago, ovviamente.
Si tratta di un altopiano desolato, caratterizzato dalla presenza di massi taglienti, aria satura di esalazioni solforose e vegetazione praticamente assente, se si eccettua il dragospino, una pianta arborea la cui unica ragione d’esistere pare sia pungere il prossimo.
Lì i draghi, creature antiche come il mondo, da sempre si ritrovano per deporre le uova e dare alla luce i loro piccoli (il che, aggiungo io, spiega il perché del loro pessimo carattere) e sempre lì i cacciatori di draghi si appostano per tendergli ogni genere di tranello pur di catturarli.
Zio Lou mi ci aveva mandato dopo aver scoperto che i suoi contrabbandieri vi erano rimasti bloccati, intrappolati a loro volta da un assembramento agguerrito di “schifosi animalisti”.
Quanto a me, dovevo fare in modo che il distillato di olio di fegato giungesse nelle sue mani e non gli importava se per farlo avrei dovuto liberare i cacciatori o ucciderlo io stesso, il maledetto drago.

Così dopo quasi tre giorni di cammino, superata la pianura paludosa del fiume Far, i sette laghi di Piagnonia e l’ultimo baluardo degli uomini in quelle regioni, la città-fortezza di Medrana sull’Orrido, giunsi ai piedi dell’Altopiano del Drak, confine sacro della Terra dei Draghi. Per onestà intellettuale, bisogna dire che era molto più “alto” che “piano”, motivo per cui la scalata si rivelò assai lunga e faticosa, anche se priva di eventi significativi.
Superato l’ultimo sperone roccioso, il Drak s’aprì improvviso davanti ai miei occhi.
Il cielo sulla Terra dei Draghi, di una perenne tonalità tra il porpora e il viola, era solcato incessantemente dai voli di quelle maestose creature che, in millenni di occupazione, ne avevano reso l’aria pressoché irrespirabile (di fatto, il metano e lo zolfo prodotti dai draghi sono tra le principali cause dell’effetto serra e del relativo surriscaldamento globale).
Non so dirvi esattamente per quanto tempo mi aggirai come un fantasma tra i massi e il dragospino, stremato dalla salita, stordito dai miasmi draconici e dalla mancanza di ossigeno. So solo che, a un certo punto, m’imbattei proprio in quello che stavo cercando: la sagoma immensa di un drago, un bell’esemplare adulto, nero cromato, giaceva incatenata al suolo, le ali tarpate, la bocca chiusa da una specie gabbia di dimensioni impressionanti, che non gli impediva tuttavia di manifestare il suo disappunto con vampate di fuoco tali che avrebbero potuto incenerire all’istante una colonna di carri. Di fianco al drago, le armi in pugno, c’erano i contrabbandieri di Zio Lou; davanti ai contrabbandieri, un centinaio di fricchettoni vestiti di bianco, i capelli lunghi e lucenti sciolti o raccolti in ghirlande, che cantavano, ballavano o fumavano erbapipa: insomma, i dannati elfi.
Ora dovete ben sapere che per un orco o un goblin (figuriamoci un orgoblin) non c’è nulla di più detestabile di quegli arroganti, frivoli, fiacchi figli di una battona immortale. Un po’ perché sono tutto ciò che noi avremmo voluto essere e non siamo, un po’ perché non perdono occasione per farcelo pesare.
Così non riuscii a trattenere il mio sdegno quando, fluttuando eterei e perfetti, apparentemente immuni al clima apocalittico di quei luoghi, due di essi mi vennero incontro con un sorriso da un orecchio appuntito all’altro.
«Nam-ur-bal, pace a te, fratello goblin. Io sono Eugelfo, e questo è mio fratello Elfonso.»
La sua voce, perfezionata sicuramente da secoli di corsi di dizione, aveva il suono del mare sulla spiaggia.
«Che cosa ti porta qui da noi, fratello goblin?» chiese Elfonso, col tono melenso di un medico che sta per eseguire un tampone rettale.
«Poche chiacchiere» dissi io, sfoggiando la mia espressione peggiore «tanto non mi incantate. Sono qui per ammazzare un drago.»
«Accomodati pure» disse Eugelfo, ancor oggi non saprei dire se con ironia. Tese un braccio verso il luogo in cui il drago giaceva aggiogato: scuotendo la testa titanica irta di corna, e roteando tutto intorno quell’occhio viperino e sapiente grosso come il portone del castello di Ur-Ghrab, lasciò partire un ruggito e una fiammata che, sebbene a parecchi metri di distanza, mi bruciò completamente le sopracciglia.
«Sei libero, fratello goblin, lo siamo tutti. Ma vorrei che ci ripensassi.»

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