La Ballata di Lando – Cap I
Torno, in un impeto di ispirazione, a imbrattare le pagine virtuali di TheIncipit con un racconto comico-fantastico dal titolo “La Ballata di Lando”. Lo riporto anche qui di seguito.
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Quando hai assistito al trapasso di tuo padre per mano di un orco, il quale dopo averlo afferrato per il collo ne ha fatto volare via la testa come un tappo di spumante, non è che puoi venir su tanto bene.
Se poi aggiungi che l’orco in questione è tua madre, ecco hai materiale per le discussioni di tutti gli strizzacervelli del regno da qui fino alla fine dei tempi.
Così ritengo che sia normale che io sia ciò che sono e che la mia storia sia andata in un certo modo, piuttosto che in un altro.
Ma andiamo con ordine e cominciamo dalla prima parte dell’affermazione, ovvero cosa sono io: il mio nome è Lando e sono un orgoblin.
Non state lì a scervellarvi, non troverete quelli della mia specie sulle enciclopedie o le storiografie, anche perché, per quanto ne so, della mia specie sono l’unico.
Proprio così, mezzo orco e mezzo goblin.
I miei si conobbero durante il saccheggio di Kelm, nelle regioni orientali, e il loro amore durò abbastanza da lasciare una traccia tangibile nelle mutande del mondo: me.
Ma orchi e goblin, è risaputo, non son fatti per stare troppo vicini tra loro; a dire il vero non son fatti per stare vicini a nessuno. Così mi ritrovai presto orfano di padre, come ho appena finito di raccontare.
Fisicamente direi che ho preso proprio da papà, non essendo io diverso da un goblin qualsiasi, forse appena un poco più robusto; motivo per cui mia madre si accorse a mala pena di avermi dato alla luce, giusto un momento prima di tirare lo sciacquone.
Quanto alla mia storia, la si potrebbe riassumere in poche righe, ma allora questa ballata non avrebbe alcun senso.
Così credo sia proprio il caso prenderla larga e di mettersi comodi, ché andrà per le lunghe.
Ma non sarà affatto noioso.
Parola di orgoblin.
All’età di dodici anni persi mia madre, nel vero senso della parola, in quella che le cronache del tempo riportano col nome de “La Grande Mattanza”: i saldi generali del mercato di Pianalunga, dove si narra siano avvenute atrocità mai perpetrate prima, neppure durante le guerre più cruente.
Mi voltai un attimo e lei era sparita.
Da allora dovetti arrangiarmi da solo, dove per “arrangiarmi” intendo “rubare”.
Avevo un certo talento, a dire il vero, eredità della famiglia di papà: lui stesso era un tagliaborse, come mio nonno prima di lui. I suoi otto fratelli erano anch’essi banditi affermati, specializzati ciascuno in un ramo diverso del settore. Mio zio Rufus, per esempio, specializzato in razzie, fu il primo a usare la catapulta per lanciarsi oltre le mura dei castelli fortificati. Fu anche l’ultimo, in effetti.
Quanto a me, preferivo il borseggio tradizionale: mi piaceva il rapporto diretto col cliente. Senza contare che avevo mani così delicate che sarebbe stato un peccato non farle fruttare.
Ricordo bene che una volta offrii a un tizio che aveva starnutito il suo stesso fazzoletto di seta.
Ero bravo, insomma, abbastanza bravo da farmi notare nell’ambiente.
Accadde una sera d’inverno, il mio ventesimo per l’esattezza. Mi ero da poco stabilito a Catona, una delle città più prosperose, popolose e pericolose del mondo conosciuto, la cui abbondanza di commercianti e turisti era per me fonte inesauribile di ispirazione. La mia giornata lavorativa si era da poco conclusa e mi accingevo a consumarne i frutti al Verro Danzante, una locanda a dir poco pittoresca situata nei pressi del porto.
A pochi passi dalla meta, fui però raggiunto e fermato da due brutti ceffi.
Il brutto ceffo numero uno era un uomo alto, col labbro leporino, che in un ambiente di gentiluomini quale quello di cui stiamo discutendo non poteva che essere conosciuto col nomignolo di Pete il Coniglio.
Il brutto ceffo numero due lo chiamavano Mastro Panza, e con ciò spero di potermi risparmiare ulteriori spiegazioni.
«Fei tu Lando?» mi chiese Pete il Coniglio.
«Dipende chi vuole saperlo.»
Mastro Panza mi diede un pugno nello stomaco.
«Riproviamo» riprese «Pete Fei tu Lando?»
«Fì, fono io.»
Ora fu Pete il Coniglio a darmene uno. Fu così che quel giorno imparai che i brutti ceffi non hanno il senso dell’umorismo.
«C’è un amico che vuole vederti» proseguì «feguici.»
E io: «Fubito.»
D’accordo, forse non lo imparai proprio quel giorno.
Fui scortato lungo un vicolo buio ed umido, fino all’entrata di uno dei magazzini del porto; con un cenno del capo Mastro Panza mi fece capire che dovevo entrare.
Era un vecchio deposito di reti e cordami, in cui il lezzo di pesce e salsedine si mescolava a un vago sentore di liquore di contrabbando. Era più grande di quel che sembrava da fuori: le innumerevoli casse e i rotoli immensi di corda per gli ormeggi erano stati addossati alle pareti, lasciando al centro uno spiazzo abbastanza grande, dal fondo di terra, illuminato da lanterne a olio così fuligginose che più che luce facevano buio. Al centro di questo spiazzo c’era una sedia, legato alla sedia c’era quel che restava di un uomo. Di spalle, con una mazza grondante sangue stretta nella mano destra, c’era lui.
…