L’incredibile talento del ragionier Paolini
Chiedo scusa (immagino siate sopravvissuti lo stesso, ma non si sa mai) per l’assenza prolungata: questo pezzo mi ha preso un po’ più tempo e spazio del previsto. Spero valga l’attesa.
F.
Non molto tempo fa, passando per via dei Fiori alle sette precise, avreste assistito ad un fatto a dir poco singolare: tra la macelleria e il vecchio emporio, sotto la terza finestra a partire da sinistra di quella casa antica pittata di giallo, si radunava un capannello di persone eterogeneo per età, mestiere e ceto sociale. C’era il calzolaio col suo garzone, la moglie del fornaio e le sue tre figlie (il fornaio invece era già al lavoro da almeno un’ora), il postino, il notaio con i suoi due apprendisti, il maestro della scuola elementare e molti altri. Perfino il sindaco da qualche tempo aveva preso l’abitudine di andare a piedi al municipio, facendo la strada più lunga, in modo da trovarsi anche lui alle sette precise sotto la terza finestra a partire da sinistra della casa pittata di giallo in via dei Fiori.
Da quella finestra infatti, ogni mattina alle sette, la voce del ragionier Paolini si riversava in strada, mescolata al fragore degli scrosci d’acqua e agli sbuffi di vapore della doccia.
Per dieci minuti buoni il ragioniere cantava, e lo faceva talmente bene che tutti nei dintorni abbandonavano per il tempo di una doccia ciò che avevano da fare; poi, quando il cigolare della manopola preannunciava il ticchettio delle ultime gocce e la fine della canzone, ciascuno tornava alle proprie occupazioni, mentre il ragioniere continuava per conto suo a canticchiare dal naso.
Piero Paolini, quaranta e uno anni compiuti, era un uomo mite e piuttosto timido.
Fuori dalla parentesi canora del mattino era raro sentirne la voce che, solo quando era strettamente necessario, gli sfuggiva dalle labbra con la consistenza di un sospiro. Di corporatura esile, indossava da sempre spessi occhiali rotondi, che parevano dilatare a dismisura gli occhi verdi e bonari. I capelli già a vent’anni avevano cominciato una ritirata graduale, lasciando scoperta la testa nel suo punto più alto; sul viso, nonostante l’età, a stento cresceva una barba rada e soffice, che il ragioniere non mancava però di rasare ogni giorno.
Abitudinario e tranquillo, l’unico capriccio che si concedeva era un bicchiere di rosso a cena e il canto, ogni mattina sotto la doccia: lì sfoderava una voce portentosa, tanto che sembrava impossibile scaturisse da un petto così minuto.
Accadde un giorno di maggio come ce ne sono tanti.
Come di consueto, alle sette, sotto la terza finestra a partire da sinistra della casa pittata di giallo in via dei Fiori, s’era radunato il crocchio di ascoltatori.
Facendo una passeggiata, capitava colà quel giorno anche Walter Nativo, agente di spettacolo in villeggiatura. Incuriosito dalla folla mal assortita, tutta compatta e col mento puntato all’insù, s’avventurò anche lui sotto alla finestra, spalancata per far entrare il bel sole primaverile.
Ai primi scrosci, un Piero Paolini particolarmente ispirato si esibì allora nel “Nessun dorma”, cantato a pieni polmoni, così forte da fare tremare i vetri delle finestre adiacenti: ad acuti fenomenali si alternavano bassi intensi e vibranti, che s’agganciavano al fondo dello stomaco dei presenti e sembravano voler farlo sprofondare ancor più giù nel ventre. Al vincerò finale, la folla era in lacrime.
Senza parole, Walter Nativo rimase impalato sotto la finestra, col mento all’insù, per tutta la durata della canzone e anche oltre, quando il ragioniere aveva ormai smesso di cantare e la gente si era dispersa.
Walter Nativo, al secolo Gianluigi Pigna, era una macchina da soldi, per i quali aveva un fiuto indiscutibile, quasi un sesto senso; il suo istinto faceva in modo che si trovasse sempre al posto giusto nel momento giusto. A lui si dovevano le scoperte di talenti di fama mondiale come il grande compositore Ugo Incognito o come Tony Pomata, showman travolgente, più volte candidato agli Oscar come miglior attore non-attore.
Ma il più grande successo di Walter Nativo, il suo fiore all’occhiello, era senza dubbio il Maestro Mario Pogolotti, tenore dal talento ineguagliabile, pupillo della critica di mezzo mondo.
Il suo nome era il termine di ricerca più cliccato del web, se si esclude la pornografia, suo il merito di aver fatto innamorare della musica classica anche le generazioni più giovani.
Ma ora, negli occhi di un Walter Nativo con la faccia ancora rivolta scioccamente all’insù, s’era accesa una nuova scintilla, una scintilla che avrebbe fatto divampare un incendio tale da carbonizzare perfino il ricordo, di Mario Pogolotti.
Determinato a saperne di più, Walter tornò altre due volte nei giorni seguenti, potendo così apprezzare anche “Il barbiere di Siviglia” e una decina di canzoni degli alpini.
Con una rapida indagine agevolata dalla fama di cui godeva in paese risalì al ragionier Paolini ed al suo numero di telefono, per mezzo del quale ottenne un appuntamento.
Alle otto e mezza di una tiepida sera di maggio, Piero Paolini si presentò al bar del paese con addosso un paio di pantaloni beige, una camicia azzurra e mocassini.
Al tavolino di metallo già lo attendeva Walter Nativo, un ciuffo soppalcato di capelli biondi, occhi azzurri vispi, barba curata ad arte per sembrare malcurata, giacca scamosciata, camicia e pantaloni di lino, piedi scalzi.
Barefooting aveva spiegato candidamente, quando il ragioniere gli domandò se gli avessero rubato le scarpe. Davanti a un caffè decaffeinato e ad un succo di mirtilli guatemaltechi da agricoltura biologica, si tenne il monologo di Walter Nativo: sì, perché a Piero Paolini non fu data occasione di aprir bocca.
I giorni seguenti, quindici per l’esattezza, trascorsero a una velocità a dir poco sconsiderata.
Piero Paolini, strappato alla sua routine, fu lavato, depilato, anestetizzato, estetizzato, lampadato e vestito come un pinguino appena in tempo per essere scagliato sul palco del Boryon, teatro della capitale, spettatore dei più grandi successi e dei più grandi fallimenti del secolo.
Walter Nativo, promotore della più martellante, rapida e dispendiosa campagna pubblicitaria di sempre, aveva avuto poco tempo per le spiegazioni. Si trattava di un duello canoro, una sfida all’ultima nota che avrebbe visto un solo vincitore.
Tutto quello che il ragionier Piero Paolini avrebbe dovuto fare era cantare, appena gli fosse stato dato il segnale. L’opera prescelta, arma del duello, era proprio il “Nessun dorma” con cui Paolini aveva estasiato le raffinatissime orecchie di Walter Nativo quel giorno, sotto la terza finestra a partire da sinistra della casa pittata di giallo in via dei fiori.
I timidi balbettii di protesta del ragioniere erano stati reiteratamente ignorati dallo stesso Walter, nonché da tutti i suoi numerosi collaboratori.
Sul palco, sotto i riflettori che gli impedivano di vedere le migliaia di facce degli spettatori del Boryon, il Maestro Mario Pogolotti lo attendeva avvolto in un mantello di feltro scarlatto; un uomo imponente, dalla lunga barba fulva, gli occhi nascosti da sopracciglia irsute, corrugate sotto il peso di rughe espressive e profonde. Gli rivolse un saluto educato, un inchino appena accennato e un ammicco impalpabile della mano guantata.
Paolini non poteva scorgerli, ma sentiva fissi su di sé gli occhi di tutti: Walter Nativo aveva lavorato fin troppo bene nel promuovere la sua immagine.
Poi tutto si fece buio, mentre gli archi dell’orchestra cominciavano il loro movimento perfetto.
La voce di Mario Pogolotti, che non a caso era chiamato Maestro, riempì la pancia del Boryon e dei suoi spettatori. Quattro minuti di un’intensità assoluta, che esplose nel finale con l’applauso e il ruggito del pubblico, irrorando il Maestro con le braccia ancora aperte in trionfo.
Dopo alcuni istanti di pausa, dopo che l’acclamazione si fece brusio e il brusio silenzio d’attesa, toccò al ragioniere. Dopo un tentativo fallito di lasciare il palco, frustrato sul nascere dagli addetti alla sicurezza, Piero Paolini si fece coraggio; s’aggiustò il papillon di strass argentati, spinse al loro posto i grossi occhiali rotondi e prese fiato.
Mi piacerebbe poter dire che fu un successo globale, un trionfo assoluto, che la folla si lacerò le vesti e si strappò i capelli, che il Maestro Mario Pogolotti in persona levatosi la cappa la mise addosso al novello vincitore, stringendogli le mani senza più volerle lasciare.
Ma così non fu.
Quello che uscì dall’esile persona del nostro amato ragioniere fu il consueto filo di voce, il sospiro discreto che rappresentava così bene il suo carattere tranquillo.
Perché il fatto, che più volte aveva cercato di spiegare senza mai essere preso in considerazione, era che il ragioniere, creatura mansueta e tranquilla, cantava solo e solamente sotto la doccia, meglio se nel suo bagno, che s’affaccia sulla strada dalla terza finestra a partire da sinistra della casa pittata di giallo in via dei fiori.
Lì, alle sette precise di un giorno qualunque, avreste potuto apprezzare il più grande e sconosciuto talento canoro del secolo.
Bene, una volta tanto ho la conferma del fatto che essere originali è difficile.
Un amico poeta mi ha fatto giusto giusto notare che il signor Allen Woody ha messo su una pellicola che praticamente è uguale (“a Roma con amore”) e di cui -mea culpa- ignoravo l’esistenza.
Vabbè, una volta che l’avrò vista, prendetela come un omaggio al regista D:
Complimenti, questo post ha davvero stimolato il mio interesse.