Il Condominio – la Conclusione

“Volgare, scontato, di pessimo gusto” Adriano Pappalardo su Burton PI
“Volgare, scontato, di pessimo gusto” Burton PI su Adriano Pappalardo.

Godetevi la conclusione, ve la siete meritata.

Alina Kudrova si aggira pensosa, sembra una tigre in gabbia. Una tigre con un revolver.
– Cosa dovrei farmene di te, adesso? – miagola.
Un paio di idee mi balenano come flash nel cervello. Glielo dico.
– Io un paio di idee ce le avrei anche.
Adesso immaginate il dolore più intenso che abbiate mai provato. Bene, non so a cosa abbiate pensato, ma so che non è neanche lontanamente paragonabile a quello che provo in questo momento.
Quando leva il tacco dal mio inguine, lentamente, l’aria ricomincia a riaffluire nei polmoni.
Cerco di farla parlare, per guadagnare tempo. Anche se non so a cosa mi serva, il tempo.
– Non hai neanche un briciolo di rimorso? – rantolo, chiudendo preventivamente le cosce per evitare rappresaglie.
– Per cosa? Era il minimo che potessi fare.
La guardo disgustato. In anni di questo schifo di lavoro non avevo mai incontrato nessuno così freddamente privo di coscienza.
– E poi – aggiunge, senza smettere di camminare – non l’avrei fatto davvero. Volevo solo spaventarlo.
Qualcosa interrompe bruscamente il filo dei miei pensieri. Di che cazzo stiamo parlando?
– Chi? – mi sforzo di chiedere.
– Gregorio Tachis!
Ora comincio a capirci qualcosa.
– E’ vero – continua – ho scritto io le minacce sui muri. Ho avuto la vernice dal signor La Siepe, una sera che si sentiva particolarmente solo. Ho sparato io alla porta dello studio di quel verme e gli ho infilato la testa di porco nel letto. Quel tappo bastardo minaccia di cacciarmi di casa, se non faccio ciò che vuole, e sai quante persone darebbero alloggio a quelle come me?
Poi mi fissa perplessa, ma non posso darle torto: ho gli occhi sgranati e la bocca spalancata, in una composizione da me intitolata “l’idiota”.
Odio quando capisco di non aver capito un cazzo.
Ma allora chi ha lasciato la videocassetta sul mio zerbino?
– E la videocassetta? – le domando.
– Quale cassetta?
– Sebaci mi ha detto che tu gli procuri attori di un certo tipo per un certo tipo di riprese. Quella cassetta, figlia di puttana.
Stavolta quella stupita è lei.
– Vuoi dire che non sei qui perché ti ha mandato Gregorio?
– Gregorio non potrà mandare nessuno da nessuna parte per un bel pezzo.
– Quel pervertito mi avrebbe gettato di nuovo sulla strada, se non avessi assecondato le sue manie.
Si blocca per un attimo, al pensiero le nocche le sbiancano mentre la mano stritola il calcio dell’arma.
– Se ti avesse mandato lui – continua – forse avremmo potuto accordarci, ma a quanto pare tu sai davvero troppo.
Fa ruotare il tamburo e tira il grilletto.
Ci siamo: l’ultimo match di Frank Burton, gli allibratori lo danno dieci milioni a uno.
Credo sia la fine migliore che potesse aspettarsi uno stronzo come me. Spero solo di lasciare una striscia abbastanza visibile nella tazza del mondo, quando Dio avrà tirato la catena.
Totò si siede a fianco a me, poggia la mano sulla mia e sorride.
– Farà male? – gli chiedo.
– Molto.
Cazzo, neanche in punto di morte riesce ad essermi di conforto.
– Ma dura un istante – sussurra – tranquillo.
Poi arriva il botto. Mentre il boato mi fracassa i timpani chiudo gli occhi, stringendoli come non ho mai fatto prima, e attendo che il colpo mi fracassi la testa.
Attendo.
Attendo ancora.
Dicono che l’istante che precede la morte duri tutta una vita, ma così è ridicolo.
Riapro gli occhi: il corpo splendido di Alina giace disteso accanto ai miei piedi, la pistola ancora in mano, gli occhi verdi sbarrati.
Su di lei si staglia una figura che fatico a mettere a fuoco controluce.
E’ un vecchio, magro come la fame, con due baffi che sembrano cespugli. In mano ha una scopa.
No, non scopa. Fucile.
– Mi spiace, ho dovuto farlo – dice, voltandomi le spalle – ti ho usato per arrivare ai responsabili della morte di mia nipote. Tornerò a liberarti non appena avrò finito, spero che potrai perdonarmi, signor Burton.
Sento i suoi passi lenti che rimbombano oltre la soglia, giù per le scale.
Nel cervello partono tutti gli ingranaggi.
– Come diavolo si chiama il custode? – domando, cercando di visualizzare mentalmente il suo cognome sulla lista.
– Augusto Farina – risponde Totò, il cui sguardo è completamente assorbito dal fondoschiena statuario dell’ex inquilina dell’appartamento numero 7.
– Totò, cazzo contieniti – sibilo tra i denti – è morta!
Totò alza lo sguardo e mi fissa come fossi un cretino – Perché, io cosa sono?
– Lasciamo perdere.
Farina. Dove ho già sentito questo nome?
Glielo chiedo.
– Era sul giornale alla tavola calda – risponde lui, tornando alla contemplazione.
Lentamente riesco a visualizzare un titolo e un nome.
“Ritrovato il corpo senza vita di Amanda Farina, 6 anni”.

– Ha visto chi è stato a sparare?
L’agente è poco più che un ragazzino. Si è fatto crescere due baffetti biondicci di primo pelo per darsi un tono, ma leggo chiaramente la parola Pivello sul suo tesserino.
Andrea Pivello. Con un cognome così, non puoi fare carriera neanche in un fast-food.
Non ricevendo risposta, ripete lentamente la domanda a voce più alta, come parlasse con un novantenne affetto da demenza senile e parziale sordità.
– Ha visto chi è stato a sparare?
Rifletto ancora un istante, prima di rispondere. Mentire probabilmente sarebbe un reato.
– No.
Mentre l’agente Andrea Pivello prende la mia deposizione, alla luce dei lampeggianti osservo tre sacchi neri uscire su altrettante barelle. Quello grosso è certamente di Sebaci, servono quattro infermieri per caricarlo sull’ambulanza. Poi tocca ad Alina, elegante perfino vestita di plastica. Infine, Gregorio Tachis.
Per lui più che un ambulanza servirebbe il camion dei rifiuti.

Meno male che mi sono fatto pagare in anticipo.

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