Il Condominio – Parte V

Continua la strana storia di Frank Burton, l’investigatore privato che tutti vorrebbero ingaggiare.

O uccidere, dipende.
Sconsigliato ai < 16, come al solito…
Al quarto piano, me n’ero già accorto passandoci la prima volta, c’è un odore da far accapponare la pelle.
Nell’appartamento 8, secondo quello che mi ha detto Tachis, ci abita una coppia di pensionati. Lui ex ferroviere, lei casalinga a tempo indeterminato. Pare abbiano avuto una discussione accesa perché nell’appartamento manca l’energia elettrica, a causa di un guasto alla centralina, a detta del mio cliente.
Busso e poi resto in attesa, mentre un lento strascichio preannuncia l’arrivo del padrone di casa.
E’ un uomo sulla settantina, occhi azzurri vacui e lineamenti delicati, in mano regge una candela. Indossa un abito da sera nero con farfallino, forse un po’ antiquato ma estremamente elegante.
Ciononostante, ha una barba di almeno due giorni e occhiaie anche più vecchie.
– Buongiorno – saluto – il signor Oresti?
Annuisce lentamente, con lo sguardo sempre fisso a un punto da qualche parte oltre la mia spalla.
– Frank Burton, ispettore della società elettrica. Dovrei farle qualche domanda, se posso.
Senza destarsi da quello strano stato di trance, si scosta e mi lascia entrare.
Lo scenario è quasi surreale. Mi fa strada lungo un corridoio tappezzato di vecchie fotografie, che scorgo appena per un istante al lume della candela, prima che vengano nuovamente inghiottite dal buio. Al fondo si volta sulla destra e attraversa un arco senza porta che introduce ad un piccolo salotto, che sembra quasi un santuario. Ci sono candele e lumini accesi ovunque. Ad un primo passo il mio piede cozza su quella che dev’essere una lattina, facendola risuonare. Quando gli occhi si abituano alla poca luce, mi accorgo che il pavimento è coperto di barattoli di conserve. La puzza è terribile, qui dentro.
– Era ora che venisse qualcuno – dice, prendendo posto su una vecchia sedia, dopo aver tolto anche da quella un paio di barattoli – siamo così da più di un mese.
– Capisco. Mi risulta che abbiate discusso anche col proprietario.
– Quella è una persona orribile. Orribile.
Vorrei dare un’occhiata in giro, ma in questo buio cimitero di scatolette rischio di inciampare e rompermi l’osso del collo.
– Stavate per uscire? – chiedo, osservando l’abito che indossa.
L’uomo non risponde, si limita a guardare il solito punto disperso nel nulla, dev’essere partito di nuovo.
– E’ partito – conferma Totò, agitandogli una mano davanti agli occhi. In effetti non so se è più malato questo tizio, la proiezione psichica del mio amico morto che tenta di farsi vedere da lui, oppure io che mi sto immaginando la cosa.
Avanzo con cautela fino ad un grosso ritratto, appeso sopra un mobile dall’aria antica. Illuminata appena da tre candele rosse c’è una coppia di sposi. Lui non fatico a riconoscerlo, a prescindere dall’abito che è evidentemente lo stesso che indossa ora. Lei è una donna alta e magra, non particolarmente attraente, ma con un bel sorriso.
– Dovrei parlare anche con la signora.
Dopo qualche istante di silenzio, arriva la risposta.
– Mi spiace, non è possibile, sta riposando. Chi è lei?
Allora non era solo un’impressione, questo è andato davvero.
– Il nuovo decoratore. Mi ha chiamato sua moglie per ravvivare l’ambiente.
Sembra soddisfatto della risposta. Senza più curarsi di me, afferra un barattolo di fagioli e inizia a raschiarne il fondo con l’indice.
Mentre il vecchio è impegnato, posso fare un giro per casa armato di candela, a mio rischio e pericolo ovviamente. Non è molto grande, sul corridoio da cui sono passato si affacciano solo altre tre porte. La prima da sulla cucina, il tavolo è apparecchiato per due e il cibo, se così si può chiamare, è distribuito nei piatti. Per terra c’è una piccola ciotola, ma è piena soltanto di polvere.
– Questa roba è andata tutta a male – osserva Totò, punzecchiando con l’indice un piatto di minestra coperta da un tappeto galleggiante di muffa.
– Chissà da quanto è qui – dico, avviandomi nuovamente verso il corridoio.
Dalla seconda si accede ad un piccolo bagno, grande quanto basta per contenere un rubinetto, la tazza e un piatto doccia. La carta è finita da secoli, a giudicare dalle pitture rupestri eseguite a ditate sulle mattonelle bianche dei muri. Avvicinandomi all’ultima porta, che si spalanca sulla camera da letto dei coniugi, la puzza cresce a dismisura. Anche qui il tempo sembra essersi fermato e l’odore è tale che mi scappa un fiotto acidulo di vomito. Adagiata sul letto, dal lato destro, c’è la signora Oresti.
O almeno, i suoi resti. Dovrei fare il comico, già.
Un gatto, spelato in più punti e magro da fare pietà, le sta praticamente mangiando la lingua.
– Cristo, fa qualcosa Frankie – dice Totò.
La faccio: vomito copiosamente.
Poi tenendo il fazzoletto davanti alla bocca, con un appendiabiti scaccio il gatto necrofago e mi richiudo la porta alle spalle.
– Direi che questi non escono di casa da un pezzo – dico, pulendomi la bocca col fazzoletto – li escluderei.
Totò annuisce.
Anche oggi ho avuto la mia dose quotidiana di merda.

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