Il Condominio – Parte IV

Continua la strana storia di Frankie Boom Burton. Ma non chiamatelo così, che poi s’incazza.
Sconsigliato <16

Nell’atrio del palazzo incontro il custode.
Cammina lentamente, seguendo una vecchia lucidatrice che fa più baccano di una maledetta locomotiva.
Mi saluta con un cenno e dice qualcosa che non riesco a sentire.
– Non riesco a sentirla – grido. Appunto.
– Cosa? – risponde lui.
– Non si sente niente – grido più forte – non può spegnerla?
Lascia la lucidatrice e si avvia verso l’ingresso della portineria, facendo cenno di seguirlo.
– Scusi – dice poi, facendomi accomodare su una vecchia sedia di legno – ma se la spengo ci vogliono venti minuti per poterla riavviare di nuovo. Sa, è un modello un po’ vecchio.
– Immagino.
Anche con la porta chiusa, il ronzio di quella macchina infernale arriva forte e chiaro. Sembra di stare seduti sotto un cavalcavia ferroviario.
– Ma mi dia del tu – concludo.
Mi sentirei a disagio se mi facessi dare del lei da uno che dev’essersi fatto tutte e due le guerre mondiali.
Sorride, ha dei denti molto curati.
– Solo se la cosa è reciproca. Un caffè? – mi domanda, prendendo il mio impermeabile fradicio con le lunghe dita nodose.
Tra un sorso e l’altro, riesco a farci quattro chiacchiere. Un interrogatorio informale, se vogliamo.
Augusto Farina, postino in pensione, mi osserva da sopra il bordo della tazzina.
– Lavori qui da molto – domando.
– Da poco più di te, in effetti – risponde – il vecchio custode ha dato in escandescenze quando il signor Tachis gli ha comunicato di volergli ridurre lo stipendio. Non che prima fosse alto, sai.
Un’idea mi illumina il cervello, una specie di insegna al neon lampeggiante, con la scritta “movente” in tre diversi colori.
– E dove posso trovare questo signore, adesso?
Il vecchio si passa una mano sui folti baffi grigi.
– Al camposanto.
– Prego?
– E’ morto, signor Burton. Dopo la notizia s’è scaldato un po’ troppo e ci è rimasto secco.
L’insegna al neon si spegne di colpo lasciando il mio cervello al buio.
– A me non importa molto della paga – riprende, portando via le tazzine – ormai sono vecchio, questo impiego è stato una vera benedizione.
Osservo la stanza, benedizione non è il termine che avrei usato io. È angusta, c’è spazio appena per una branda pieghevole, una scrivania  e due sedie. Non riesco a trattenere una smorfia ed il vecchio se ne accorge.
– E’ piccola, lo so. Perfino lo sgabuzzino delle scope è più ampio. Ho chiesto al proprietario se potevo far cambio, ma non ha voluto, dice che si rovinano le scope.
– E ti sta bene?
Il custode si stringe nelle spalle.
– E’ una miseria, ma nessuno mi obbliga a stare qui. E non ammazzerei un uomo solo perché è uno stronzo avaro.
Mi strizza un occhio, che sparisce in un groviglio di rughe, coperto da un folto sopracciglio grigio. E’ sveglio, il vecchio.

Appartamento 7.
– E’ aperto – dice una voce di donna dall’interno. Stavo per andarmene, dopo aver bussato per quasi cinque minuti. Pulisco le scarpe bagnate sullo zerbino, giro il pomello ed entro.
Mi accoglie un salone arredato con gusto, luci basse, due divani in pelle, uno nero e uno rosso.
Un’elegante libreria divide a metà l’ambiente. Scorro i numerosi titoli raccolti: se ha letto anche solo la metà di  tutta questa roba, ha una cultura due volte più vasta della mia.
– Sono sotto la doccia, tre minuti. Si accomodi – dice la voce.
Appendo l’impermeabile vicino alla porta e mi siedo sul divano rosso, vicino al quale c’è un minibar a forma di mappamondo. – Si serva pure – l’invito arriva da una stanza alle mie spalle. Ha una voce incredibilmente calda, che accarezza i timpani e scioglie i nervi, potrei ascoltarla per ore.
Preparo uno scotch and soda e lo sorseggio aspettando la padrona di casa, Alina Kudrova, secondo la mia lista. Mi accorgo solo ora di una lieve melodia in sottofondo, ma non capisco da dove provenga. Killing me softly, mi pare.
– Buongiorno.
Mi volto appena in tempo per farmi venire un principio di infarto: davanti a me c’è una donna di circa un metro e ottanta, occhi verdi e capelli neri ancora gocciolanti d’acqua. E’ avvolta in un accappatoio, nero anche quello, che mette in risalto la pelle chiarissima e lascia intravvedere i seni.
– Scusi se l’ho fatta aspettare.
Si siede così com’è sull’altro divano e accavalla le gambe micidiali.
– Ha da fumare? – domanda, prima che possa aprire bocca. Cerco nervosamente il pacchetto e le porgo una sigaretta, lei la prende e la posa delicatamente tra le labbra, su cui c’è appena una nota di rossetto, sporgendosi in avanti per raggiungere la fiamma che le tendo.
Rimaniamo in silenzio per qualche minuto, mentre lei mi squadra da capo a piedi.
Inutile dire che la cosa è reciproca.
– Mi manda il signor Tachis – dico, prendendo l’iniziativa. Il nome alla fine me lo sono appuntato sulla mano. Lei fa una faccia scocciata, chissà perché la cosa non mi sorprende affatto.
– Non si aspetti uno sconto solo perché è raccomandato da quel porco.
– Prego?
Mi guarda seria, con l’aria di chi non vuol scendere a patti.
– Ha capito benissimo. Prezzo pieno.
Comincio a capire che mestiere fa, ma non sono qui per questo. E comunque, mi sa che non me la posso permettere.
– Temo ci sia un equivoco, signorina Kudrova. Mi chiamo Frank Burton, sono un investigatore privato.
A quelle parole, quei due occhi fantastici si riducono a fessure e mi trafiggono come fossi un maiale allo spiedo. Improvvisamente mi sento nudo, deglutisco a fatica. Che diavolo mi prende oggi?
– Dovrei farle solo qualche domanda, niente di cui preoccuparsi – balbetto.
Lei si alza e in punta di piedi scalzi viene a sedersi di fianco a me.
– Questa è casa mia, qui non sono io quella che deve preoccuparsi – mi sussurra all’orecchio, facendomi drizzare i peli del collo e non solo. Mi poggia una mano sulla coscia, sobbalzo: metà del mio drink mi si rovescia sui pantaloni, l’altra metà sul tappeto.
– Che brutta macchia. Ora dovrà toglierseli.

Sono passate le sette di sera, quando mi chiudo la porta alle spalle con la sensazione di essere stato fottuto, in tutti i sensi.
Totò mi aspetta seduto in cima alla rampa di scale, giocherellando con la sua monetina portafortuna. Lo faceva sempre, in continuazione, per lo più per farmi incazzare. Peccato che non sia servita a salvargli il culo.
– Interrogatorio faticoso eh?
– Non sai quanto.
– Hai ancora del rossetto.
Mi guardo il colletto della camicia, strabuzzando gli occhi e facendo una faccia idiota. Quella di chi cerca di guardarsi il colletto della camicia senza uno specchio.
– Non lì.
Sposto lo sguardo più in basso.
– Non puoi immaginare – mi giustifico – è riuscita a sbottonarli con la lingua.
– Bella donna?
– Di più.
– Occhi?
– Belli sodi.
Sembra soddisfatto. Si alza e mi precede giù per le scale, mentre io sottolineo il nome “Alina Kudrova” sulla mia lista. Qualcosa mi dice che dovrò tornarci.

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