#assuefazione
Non ricordo bene com’è cominciata, né quando.
So solo che arrivato a un certo punto non riuscivo più a farne a meno.
In principio me ne facevo solo in camera da letto, in bagno, o al massimo in macchina; poi ho iniziato anche sull’autobus, quando ero sicuro nessuno mi vedesse, o al lavoro, sempre di nascosto. Ma alla fine, alla fine dico, ci ho preso per così dire… la mano.
E allora giù senza ritegno anche per strada, nei negozi, in biblioteca, sulle giostre, in panetteria, nel bel mezzo della folla alla sagra del tartufino di Ponteggio sull’Adda.
Me ne facevo di tutti i tipi, a una o a due mani, multiple, ritardate.
Ero diventato così esperto che riuscivo anche a dargli alcuni effetti particolari e più me ne facevo, più volevo farmene.
Poi un giorno ho scoperto che non ero l’unico che soffriva di questo “disturbo”. Fu un amico ad avvicinarmi, durante una festa. Facciamocene una insieme, mi fa. Io e te? Qui, davanti a tutti? Ma sì, ma sì, anzi sai cosa, chiamiamo pure Franco.
Quello fu il principio della fine. Iniziai a farmene anche in compagnia, a volte in gruppo, perfino con perfetti sconosciuti. Vivevo in uno stato di ebbrezza autoindotta perenne.
Finché mi resi conto di aver toccato il fondo, quando me ne feci una nel salotto di mia nonna. Con lei presente.
Sempre con quell’aggeggio in mano, guarda che poi ti rovini la vista, mi disse, scuotendo la testa carica di anni.
Ora frequento un gruppo di recupero, dove c’è gente come me, che non riesce più a smettere, gente con il polso slogato e calli epici sui polpastrelli, gente che ha violente crisi di astinenza. Ma c’è anche chi ce l’ha fatta, e tutti, dal primo all’ultimo, dicono la stessa cosa: il primo passo per risolvere il problema è ammettere di averlo.
Per cui.
Ciao, mi chiamo Ferdinando e ho 26 anni.
Non bevo, non fumo e non assumo droghe.
Soffro di sindrome da dipendenza paranoide da autoscatto fotografico digitale semiassistito di secondo livello.
In altre parole, m’ammazzo di selfie.