Sulla scrittura: l’incipit
Premessa: le righe seguenti non contengono “la verità” (quando si parla di scrittura, e più in generale di creatività, la verità è solo una parola: si confonde con le altre), piuttosto sono riflessioni di uno che, piuttosto che aver qualcosa da insegnare, fa dello scambio di opinioni il suo modo di apprendere.
Pare che una buona stretta di mano incida molto sull’impressione che facciamo ad uno sconosciuto. L’incipit è la stretta di mano di uno scrittore: se è buona, ti farà venir voglia di approfondire la conoscenza o, in questo caso, la lettura. Sarà poi allo scrittore dimostrare di essere un buon intrattenitore fino alla fine.
Prendete un libro a scatola chiusa, ovvero senza che nessuno ve ne abbia parlato, senza che vi sia stato raccomandato, un libro non pubblicizzato. Un libro, insomma, il cui giudizio immediato dipenda solo dalla stretta di mano tra voi e l’autore (allo scopo dell’esperimento: meglio se autore mai letto prima).
Difficilmente andrete oltre le dieci pagine, se queste si sono rivelate noiose, inconcludenti o peggio, mal scritte. E’ come far colpo su qualcuno: se cominci con una figura di merda, è facile che rivolga altrove le proprie attenzioni.
L’incipit è l’inizio del corteggiamento dello scrittore ai suoi lettori. Ciò non vuol dire che debba giocare qui le sue carte migliori, piuttosto significa che deve incuriosirli.
È noto che la curiosità faccia fare agli esseri umani le cose più idiote, la lettura non fa eccezione.
Non servono interrogativi eclatanti o esistenziali, basta una domanda, o addirittura un germe di domanda:
Cosa contiene quella valigetta? Che segreto nasconde la vecchia con le ciabatte? Perché quella porta è aperta? Riusciranno gli eroi a portare a termine la loro missione?
Le risposte ad alcune domande, come l’ultima che ho posto come esempio, possono essere perfino ovvie: la risposta è scontata eppure il lettore vuole vedere, vuole accertarsi, vuole scoprire in che modo aveva ragione. È ovvio che, ne “Il Signore degli anelli”, alla fine il bene vada a trionfare sul male. Quello che Tolkien offre al lettore, è la storia del “come”.
Personalmente, mi piacciono gli incipit diretti, che introducano senza troppi giri di walzer e parole il lettore nella narrazione. Esempio per eccellenza, progenitore del romanzo come lo conosciamo, “I promessi sposi” del maestro Manzoni inizia con una bella sventagliata descrittiva, per farci capire subito con chi abbiamo a che fare, che ci cala nel contesto. Finita quella, ecco che quel volpone di Alessandro ci presenta subito don Abbondio (qui vorrei sproloquiare per dieci pagine sul perché secondo il sottoscritto sia lui, non Renzo e Lucia, il vero protagonista de “I promessi sposi”, ma vi risparmio).
E senza che ce ne rendiamo conto, ecco schiudersi il germe di almeno tre domande:
-chi è questo don Rodrigo così temuto?
-perché non vuole che si sposino quei due poveracci?
-come si divincolerà dalla faccenda il pretacchione?
E così via. Lo spirito dell’intera opera è già racchiuso lì, nell’incontro tra don Abbondio e i bravi su quel tratto di strada costeggiato da un muretto, ma noi seguiremo a leggere, per rispondere a quelle domande e porcene altre.
Credo che questo valga per tutti i romanzi, i racconti, i discorsi, i saggi, i dialoghi e pure e soprattutto le lezioni universitarie.
Per riassumere tutto in una parola: curiosità.
Ovviamente, meglio se accompagnata da un bello stile, fresco e scorrevole, e soprattutto da una grammatica impeccabile.
Questi non sono -ovviamente- criteri infallibili: come può capitare che due persone non si piacciano nonostante una presentazione educata e cordiale, così anche un bravo scrittore, nonostante un incipit scritto con sudore e sangue, può vedersi sbattere la copertina in faccia.
Come ho già avuto modo di dire, c’è una parolina insidiosa e discreta che però riassume tutte le dissertazioni sull’argomento: LA FORTUNA! Sembra anacronistica o addirittura delirante, ma è onnipresente e decide, in maniera spesso poco obiettiva, chi vale e chi non ha talento. L’unico antidoto contro i suoi capricci è l’autopubblicazione. Se non altro, sarà una massa di lettori che decreterà il tuo fallimento e quando le voci sono corali, anche il più convinto e ottuso dei presunti talentuosi dovrà arrendersi…Non alla consapevolezza di non valere ma al fatto inconfutabile di non piacere a madama FORTUNA. Il mio modo di vedere ha un’origine precisa: sono partenopea, il popolo dove FATO non è solo una parola!