Morto vivente
Il referto sta sotto ai miei occhi, nero su bianco, a confermare quello che il medico, non senza una punta di imbarazzo, mi ha appena comunicato: deceduto. Eppure sono ancora qui, che parlo e ascolto e guardo e respiro pure, e conto sulle dita tutte quelle funzioni più o meno discrete che dovrebbero attestare la mia vitalità. Com’è potuto accadere che io sia morto senza nemmeno accorgermene?
Non sapendomi rispondere lo chiedo anche al medico.
– Sono cose che capitano, non se ne doglia – risponde il dottore, con quel suo fare professionale e rassicurante da figlio d’Ippocrate – ora mi scusi, ma dobbiamo liberare il lettino.
– Come sarebbe liberare? Io sono ancora qua.
– Sì, ma vede, i letti sono per i malati e lei, tecnicamente, non lo è.
Mi gratto la fronte stempiata, cercando di cogliere una falla nella tesi del mio interlocutore. Ma di falle non ce ne sono e mi trovo costretto a prenderne atto.
– Clinicamente – continua il luminare – lei è morto. E le regole dell’ospedale sono ferree.
Davanti al portone di casa c’è il grosso furgone di una ditta di traslochi. Devono aver finalmente trovato un pollo cui affittare la topaia del primo piano, penso, fermandomi ad osservare il viavai di mobili e scatoloni. I braccianti, che come tante altre persone non sembrano accorgersi di essere vivi almeno quanto io non mi sono accorto di essere passato a miglior vita, svolgono il loro lavoro immersi in una monotonia apatica. Mi rendo conto che qualcosa non va quando vedo Freud, il mio gatto, un animale obeso e inerte che sembra un soprammobile, e che per non deludere le aspettative di nessuno passa tutto il suo tempo sdraiato sul divano del salotto. Lo fisso mentre lo portano via con tutto il divano, e lui ricambia il mio sguardo con un’espressione che sembra dire “che vuoi farci, è la vita”.
Una sensazione orrenda mi afferra al fondo dello stomaco. È come se due omini minuscoli, sporgendosi dalla cima del mio esofago, vi avessero lasciato cadere un macigno per vedere quant’è profondo il mio apparato digerente. Ora vorrei sapere come lo spiegherebbe, questo, il mio caro dottore.
– Che diavolo state facendo – grido rivolto a quello che sembra il capo della squadra, un individuo di quasi due metri per almeno cento chili.
– Portiamo via tutto.
Cristallino.
– Intendevo dire, chi vi ha autorizzato a farlo.
– La banca. Visto che il proprietario è spirato senza finire di pagare il mutuo, portiamo via tutto.
Lo fisso incredulo mentre spunta da una lista spiegazzata, ad uno ad uno, tutti i tasselli della mia esistenza.
– Ma il proprietario sono io – sospiro, scoraggiato, continuando a guardare la mia vita che viene caricata sul camion, chiusa in scatole di cartone.
– Condoglianze – risponde quello toccandosi l’elmetto, senza smettere di vidimare.
– Ma insomma, io sono vivo – grido, incurante della reazione che potrei suscitare in quell’energumeno frustrato. Quello alza ancora una volta lo sguardo dalle scartoffie, spulcia un fascicolo di fogli e me ne porge uno: in dieci righe la parola deceduto compare almeno tre volte.
La folgorazione giunge inaspettata. Rendo il foglio e scappo via, svoltando nella strada che costeggia il fianco del palazzo. La mia macchina è ancora lì, forse pensano di prenderla dopo, con calma. Non pensano certo che il morto possa portarsela via come se niente fosse.
Lampeggiante, paletta, prego accosti qui.
Il carabiniere dall’altro lato del finestrino sembra reduce da una pessima giornata, il tono piatto e velato d’indolenza della sua voce me ne danno la conferma.
– Patente e libretto di circolazione per favore.
Gli consegno le i documenti e lo osservo mentre li porta alla volante dove lo attende un collega.
– Signore, lei non può guidare – dichiara, senza la minima inflessione di tono.
– La patente è valida, l’assicurazione l’ho pagata il mese scorso e la revisione è stata effettuata ieri mattina, che problema c’è?
Purtroppo, da qualche parte nel mio stomaco, conosco già la risposta.
– Lei risulta essere deceduto, signore. Prego, scenda dalla macchina.
Dopo un quarto d’ora, non avendo un test atto a dimostrare l’incapacità dei defunti alla guida, sono costretti a lasciarmi andare. Ma lo fanno con un verbale di trecento euro per guida in stato di morte.
Infilo la chiave nella toppa e la giro senza fare rumore. So che l’ora è tarda, ma non ho altro posto dove andare. La casa è buia, le pareti sono spesse e da fuori i rumori della strada arrivano smorzati. Si può dire che c’è silenzio, o quasi. Un tenue, costante cigolio si disperde nell’ingresso attraverso il salone, rimbomba nel bagno e nella cucina. Arriva dal piano di sopra. Salgo le scale foderate di moquette, supero lo studio e punto la porta in fondo al corridoio.
Mi accoglie un grido, anzi due. Li riconosco entrambi, ma non avrei mai pensato di udirli insieme.
L’interruttore scatta impietoso, gettando luce su tutta la faccenda. Lui e lei, aggrovigliati e nudi come mai avrei voluto vederli.
– Laura, Silvio – riesco a dire, con un briciolo di fiato – come potete farmi una cosa del genere?
Lo spavento si dissolve sui loro volti, che tornano a distendersi dopo la sorpresa.
– Ma lo sai che razza di spavento ci hai fatto pigliare – mi chiede lui, afferrando i boxer appesi alla abatjour sul comodino. – Sì – gli fa eco lei, coprendosi col lenzuolo, come se non l’avessi mai vista nuda – potevi almeno bussare.
Mi sento perso e un po’ confuso. Se non sbaglio ho appena pizzicato la mia fidanzata e il mio migliore amico nel più classico dei cliché. – Cos’è quella faccia – mi domanda Laura, ora anche lei alla ricerca di indumenti perduti. – Come sarebbe a dire? Ma vi rendete conto? Dovreste essere le persone che mi amano di più, non che si amano di più.
– Senti caro, mi hanno telefonato dicendomi che eri morto, ho firmato documenti e scartoffie in ospedale e in banca per tutta la mattina. Ero a pezzi e Silvio era lì per consolarmi.
– Grazie Silvio – sbuffo.
– Figurati. Mi passi i pantaloni?
Gli avvicino i jeans col piede, poi torno ad occuparmi di Laura.
– Potevi almeno aspettare qualche giorno – la rimprovero.
– Non mi faccio certo dire come vivere la mia vita da un morto. Esci da qui, per favore.
Vorrei gridare, credo che il prossimo che mi da del defunto dovrò ucciderlo. Per ora, giro i tacchi ed esco..
La città a quest’ora della notte è deserta, quasi un cimitero. Dovrei sentirmi a casa dunque, mentre guido a fari spenti verso il ponte e migliaia di pensieri si affollano alla soglia della mia mente. Morire davvero non sarà poi così difficile, visto che ho sempre vissuto come se lo fossi: la mia vita è così avvizzita che è entrata senza sforzi in cinque scatole da trasloco, ed io sono stato come gli operai, la trasportavo qua e là senza rendermi conto del suo valore. Di tutti i miei sforzi mi è rimasta un’automobile con due rate ancora da pagare e il serbatoio quasi vuoto. La stessa macchina di cui, a metà del ponte, tiro il freno a mano sterzando. L’auto sbanda, sfonda il parapetto e vola leggera di sotto. All’impatto con l’acqua il cervello si spegne.
Apro gli occhi, intorno al mio letto ci sono tutti. Ma proprio tutti: Laura e Silvio, il direttore della banca, il medico e perfino i traslocatori. Tutti hanno messo su la stessa maschera, un misto tra imbarazzo e senso di colpa. A parlare è proprio il dottore.
– È vivo, grazie al cielo. Non poteva morirmi, eh, ci tenevo a dirglielo, anche se è una cosa imbarazzante.
A parte la testa che gira, la vista sfocata e il sapore di alghe e fango che ho in bocca, ha tutta la mia attenzione.
– Si è trattato di una svista, uno scambio di cartelle. Lei è sano… come un pesce – ridacchia, compiaciuto della sua stessa battuta – O almeno lo era, prima che tentasse di morire annegato. Il paziente deceduto era un omonimo, pensi che coincidenza!
Ci penso sì. Penso al capo di quel povero disgraziato che se l’è presa con una salma perché non si è presentata al lavoro, alla fidanzata che ha lasciato l’amato defunto perché era troppo freddo, al medico che ha dimesso un cadavere, scaricandolo fuori dal policlinico, perché era sano come un pesce.
Io e quella salma abbiamo in comune molto più di quanto si possa immaginare, dopotutto: una scritta su un foglio di carta ha cambiato la vita e la morte di entrambi. Lo penso, e continuo a pensarlo anche mentre tutti si congratulano stringendomi le mani troppo deboli, sussurrando scuse imbarazzate, e mentre li guardo uscire dalla stanza e dalla mia vita, da soli o a braccetto, lasciandomi una sola, semplice domanda.
Chissà dov’è ora il mio gatto.